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mercoledì 26 dicembre 2018

Sul Natale


Questo post è soltanto una serie di riflessioni che ho elaborato in più riprese nel corso degli ultimi anni, informandomi sulle più antiche fonti storiche su Gesù, fonti su cui si è basato, accettandole o trasformandole, il cristianesimo che nel corso dei secoli è giunto fino a oggi. Non sono un esperto e sicuramente ci saranno magari tante imprecisioni forse, ma ho pensato di pubblicare in occasione del periodo di Natale questo scritto che tenevo nel cassetto da tempo...

Le più antiche fonti su Gesù sono le lettere di San Paolo, ovvero Saul (il suo nome ebreo) o Paulus (il suo nome romano). Non tutte sono ritenute autentiche, ma quelle che lo sono risalgono al sesto decennio del I secolo dell’era cristiana, cioè presumibilmente una ventina d’anni dopo la morte di quella persona chiamata Gesù (Yeshu in aramaico, la sua lingua nativa). Lo stesso Paolo afferma di non averlo mai conosciuto, ma di essere stato in passato un persecutore dei suoi seguaci, per conto del Sinedrio di Gerusalemme. Paolo era un ebreo istruito, cresciuto nell’ambiente ellenizzato e cosmopolita della città di Tarso, in Cilicia (attuale Turchia meridionale), e aveva studiato a Gerusalemme alla scuola del grande rabbino tradizionalista Gamaliehel. Lo stesso Paolo nelle lettere non parla mai di una sua visione o conversione improvvisa (la famosa “folgorazione sulla via di Damasco”) come è raccontato negli Atti degli apostoli, scritti da qualcun altro successivamente, in forma quasi romanzata e con intenti evidentemente catechetici. Paolo accenna a un’evoluzione interiore e comunque non ne parla mai esplicitamente. Quel che è chiaro, dal linguaggio che usa, è che diventa un evangelizzatore molto zelante, e convinto sostenitore della deità di Gesù.
Dal contenuto delle lettere di Paolo si deduce che già prima della metà del I secolo esisteva a Gerusalemme una comunità di fedeli seguaci di questo defunto Yeshu. Paolo lo chiama Gesù Cristo, nella lingua originale in greco Yesus Chrystos, cioè unto, consacrato, come gli antichi re di consacrazione divina, e afferma che Gesù Cristo ha natura divina. Da alcuni passaggi si intuisce anche che ci dovevano essere state delle tensioni tra i primi seguaci di Yeshu e la nuova visione portata avanti da Paolo. I primi erano coloro che avevano conosciuto e ascoltato Yeshu di persona. Erano tutte persone di umili origini, o di classi medio-basse, pescatori, artigiani, gente di villaggio. Tra loro spiccavano Symon detto Petrus (il futuro San Pietro) e Yaqoub (Giacomo, che secondo le fonti sarebbe stato fratello di Yeshu). Paolo afferma che in passato, da zelante ebreo tradizionalista, si era scontrato con questa come con altre comunità che deviavano dall’ortodossia dell’ebraismo promosso dal Sinedrio. Ma poi, qualche anno dopo la morte di Yeshu, si incontra e si confronta con questi seguaci. Non se ne sa il motivo (al di là della storia della “conversione sulla via di Damasco”), fatto sta che Paolo diventa un attivissimo promulgatore del messaggio che, secondo quanto dice, sarebbe stato quello di Gesù.

Stando ai racconti elaborati e poi messi per iscritto nei decenni successivi, Yeshu, forse, aveva predicato un messaggio di rinnovamento delle vecchie tradizioni ebraiche, ed era stato condannato a morte a Gerusalemme dalle autorità religiose ebraiche (condanna eseguita dai soldati romani in quanto autorità militare e civile che occupava la Palestina all’epoca), perché accusato di sovversione della legge mosaica e della quiete pubblica.

Ma l’intraprendenza evangelizzatrice di Paolo probabilmente cambiò lo Yeshu storico, predicatore di Galilea, in una figura nuova, mistica. Paolo e i suoi collaboratori fecero viaggi in tutto il Mediterraneo orientale, e fino a Roma. Il Gesù che raccontavano alle popolazioni da convertire era quindi non più Yeshu, ma il Gesù Cristo divino. Gli scritti successivi quindi (come gli stessi Vangeli e Atti degli apostoli) pur essendo ancora in parte basati sui racconti tramandati dagli apostoli che avevano conosciuto direttamente Yeshu, furono influenzati dal nuovo pensiero paolino e dalla figura di Gesù Cristo salvatore del mondo.

Papia di Ierapoli, vescovo cristiano vissuto a cavallo tra il I e II secolo, scrisse un’opera (si ritiene tra gli ultimi anni del I secolo e i primi anni del II secolo) in cui affermava di aver raccolto testimonianze dal vivo di persone che avevano conosciuto la gente che a suo tempo aveva conosciuto Yeshu o gli apostoli. Papia dice di fidarsi più delle testimonianze che degli scritti, e questo è un segnale di quanto gli scritti, anche i più antichi, possano essere stati contraffatti di proposito. Papia cita le due fonti probabilmente più vicine allo Yeshu storico: gli scritti degli ‘evangelisti’ Matteo e Marco. Riguardo agli scritti di Matteo (Matyas), dice che “Matyas riordinò i discorsi scrivendoli in ebraico/aramaico, ma poi ognuno li interpretò alla sua maniera”. Come a dire, che mettere per iscritto discorsi uditi a voce apre la porta a male interpretazioni, anche soltanto perché la lingua scritta può già avere alterato i concetti espressi a voce (tanto tempo prima). Oltretutto, il Vangelo di Matteo nella versione che è giunta a noi è scritto in greco, quindi quella versione potrebbe forse essere una ulteriore elaborazione da precedenti scritti in ebraico o aramaico.
Ancora più interessante è ciò che Papia dice degli scritti di Marco (Marcus). Questo scrive Papia: "L’anziano Giovanni mi raccontava che Marco, in qualità di aiutante di Pietro, trascriveva accuratamente quanto più possibile di ciò che Pietro ricordava – anche se non in ordine – delle cose dette o fatte dal Signore (Gesù). Infatti Marco non aveva ascoltato o seguito il Signore, ma successivamente ascoltò da Pietro, che usava dare insegnamenti ricordando brevi frasi (di Gesù), ma non con l’intenzione di fornire un ordine logico ai discorsi del Signore. Di conseguenza Marco non fece nulla di male, trascrivendo singoli episodi a seconda di come sovvenivano alla memoria (di Pietro). Perché si pose l’impegno di non omettere nulla di ciò che aveva sentito, né di falsificare alcunché".

Da questo scritto si capisce come il contenuto dei Vangeli, anche del Vangelo di Marco che di solito è ritenuto il più vicino a una possibile realtà storica, siano elaborazioni di trascrizioni di ricordi in terza persona, nella migliore possibile delle ipotesi. Il tutto sicuramente commisto con la teologia ideologica nascente, di cui Paolo era il paladino più zelante. Sono stati scoperti dei frammenti di scritti antecedenti ai Vangeli, riguardanti queste trascrizioni dei racconti orali, e quasi sicuramente già questi primitivi racconti (contemporanei probabilmente alle prime lettere di Paolo) erano già qualcosa di diverso da ciò che era avvenuto realmente, perché avevano già una funzione apologetica.

Tutto questo per dire che non si possono prendere i Vangeli come fonti storiche, e anzi bisogna considerare che forse solo una parte sbiadita del loro contenuto avvenne realmente, molto probabilmente in modo comunque differente da come riportato. Quindi, morale: non possiamo sapere chi fosse e cosa volesse realmente quel Gesù di cui parlano le lettere di Paolo e i Vangeli.

D’altro canto, la sua esistenza storica sembrerebbe inconfutabile. A meno che non si voglia pensare che gli antichi seguaci di Yesus (in greco, o Jesus in latino) chiamato Chrystos, seguaci citati anche in fonti non cristiane fin dagli anni a cavallo tra I e II secolo, fossero stati tratti in un inganno colossale e venerassero una figura proposta loro (da parte di Paulus, Symon detto Petrus, Yaqoub/Giacomo e degli altri apostoli) come esistita e messa a morte pochi anni prima, quando in realtà forse lo Yeshu (in aramaico) da loro raccontato non era mai esistito. Ma forse questo sarebbe pretendere troppo. Volendo credere alla buonafede e al buonsenso dei primi predicatori, si può ragionevolmente ritenere che Yeshu visse realmente, e che realmente venne messo a morte negli anni in cui Tiberio era imperatore a Roma, probabilmente tra il 30 e il 37 d.C. E addirittura che molti dei passi inclusi nei Vangeli siano ispirati a fatti avvenuti, per quanto poi modificati letterariamente. Da questo punto in poi, credere o no riguarda solo e soltanto la fede individuale.

venerdì 7 aprile 2017

L'antichità nell'Ovest Veronese: 8) I Romani

Nella primavera dell'anno 67 (esattamente 1950 anni fa) il territorio veronese era ormai romanizzato da tempo. I Paleoveneti, da sempre in relazioni amicali con Roma, si erano lasciati assorbire col tempo e gradualmente dall'espansionismo romano, senza perdere la loro identità culturale, ancora viva nel primo secolo dopo Cristo. Roma stava mettendo in atto una vera e propria "globalizzazione", espandendosi nel Mediterraneo. Ma i popoli occupati mantenevano comunque le loro vecchie tradizioni, quando non andavano contro gli interessi di Roma ovviamente.


Verona nel 67 d.C.
Verona, grazie alla sua posizione geografica, si era arricchita molto e già all'epoca di Giulio Cesare i suoi abitanti avevano richiesto e ottenuto la cittadinanza romana. In quest'anno 67, mentre l'imperatore Nerone regnava a Roma, Verona viveva il periodo più splendido della sua storia antica. La nuovissima Arena, costruita di recente, dava mostra di sé fuori delle mura, mentre dal lato opposto della città c'erano le terme e il teatro, presso l'ansa dell'Adige. La Via Gallica, la cui costruzione era stata ultimata non molti anni prima, usciva da Verona verso ovest, e ricalcava il percorso dell'attuale strada regionale 11 Padana Superiore (ex strada statale 11). Attraversava quindi la parte meridionale dell'attuale territorio comunale bussolenghese (proprio come oggi la SR11) in direzione Arilica (attuale Peschiera del Garda).

Non a caso nella parte meridionale del territorio comunale di Bussolengo sono stati trovati anche reperti romani. Nella stessa antica pieve di San Salvar (VIII-IX secolo) sono tuttora visibili antiche stele romane, probabilmente utilizzate durante l'edificazione della chiesa prelevandole da ville romane di campagna costruite presso la Via Gallica. Nel I secolo dopo Cristo, dopo la costruzione della Via Gallica e l'enorme sviluppo della Verona romana, è infatti probabile che nella campagna bussolenghese sorgessero qua e là residenze rurali. Per essere chiari, va detto che gli abitanti delle nostre zone altro non erano che i discendenti di paleoveneti, cenomani, euganei, reti, etruschi, e di tutte queste genti mischiate tra loro, soprattutto in questa zona del Garda meridionale, al confine tra diverse regioni culturali. Nel corso di quasi una decina di generazioni, questa gente aveva assorbito il modo di vivere romanizzato senza troppe difficoltà, ma questo non vuol dire che gli abitanti di qua fossero "romani di Roma" (tranne qualche funzionario incaricato dall'imperatore di amministrare Verona, forse).

Inoltre, secondo alcuni ricercatori, presso l'attuale chiesa di San Valentino, quindi dove oggi sorge il nucleo abitato antico di Bussolengo, in epoca romana esisteva un crocicchio con molto probabilmente un'edicola votiva dedicata alle divinità dei Lares Compitales, protettori appunto dei crocicchi stradali percorsi dai viaggiatori. Passava per di lì infatti una via percorsa dai legionari, che provenendo dalla Pianura Padana (ricalcando il tracciato dell'attuale Via Molinara, che non a caso proviene in linea retta fin da Villafranca di Verona) proseguiva oltrepassando l'Adige per addentrarsi nella Val d'Adige. E se esisteva un crocicchio, significa che quella strada si incrociava con un'altra via: guardando alla topografia delle strade principali che ci sono oggi sul territorio bussolenghese, si può verosimilmente assumere che l'altra via minore ricalcasse grosso modo il tracciato dell'attuale Via Gardesana che, provenendo da Verona, passava a quel tempo attraverso l'attuale centro storico di Bussolengo (come avveniva prima della costruzione della moderna Gardesana) per proseguire in direzione di Lazise, come oggi. Dopotutto queste vie "minori" erano tracciati che esistevano ancora prima dell'epoca romana, basti pensare che sui monti di Bussolengo esistevano villaggi ancora secoli prima dell'avvento di Roma. C'era un senso se quelle vie passavano di lì, collegavano i vari villaggi, quindi non c'è da stupirsi se alcune strade che esistono ancora oggi ricalcano quegli antichi sentieri. Anzi, è possibile ipotizzare che le prime case del futuro borgo di Bussolengo avrebbero cominciato a sorgere proprio sviluppandosi attorno a quel crocicchio di Lares Compitales che nel medioevo, ormai decaduto e in abbandono, sarebbe stato sostituito da una chiesa cristiana, la chiesa di San Valentino.

Durante l'epoca neroniana tutta la campagna attorno a Verona doveva essere usata come territorio di coltivazione per fornire di cibo una popolazione urbana in espansione (oltre i 25.000 abitanti nella sola città). La Valpolicella era molto rinomata già allora per le sue coltivazioni vinicole, oltre che come luogo di villeggiatura per ricchi, e il fiume Adige veniva utilizzato per il trasporto dei prodotti. Perfino un acquedotto partiva vicino alla attuale Parona, pochissimi chilometri a est dei confini bussolenghesi orientali, per rifornire Verona dell'acqua dell'Adige. Quindi la nostra zona, tra la ricca Verona e la rinomata Valpolicella, era molto romanizzata, e situata lungo l'importantissima via di transito ovest-est della Via Gallica, e la via minore (ma non di minor importanza) con direttrice sud-nord che passava dalla zona di Bussolengo in direzione della Val d'Adige, andando a collegarsi con la Via Claudia Augusta verso Trento (Tridentum).

venerdì 21 ottobre 2016

L'antichità nell'Ovest Veronese: 7) Autunno 350 a.C.

Una tribù celtica sul piede di guerra

Siamo nell'autunno dell’anno 350 a.C. 
È un autunno particolarmente rigido e piovoso. È passato poco più di un secolo dalla nostra ultima corrispondenza, e la situazione è piuttosto cambiata: genti celtiche frequentano e abitano l'area del Garda e il circondario. Sono della tribù dei Cenomani e sono arrivati da qualche decina d’anni, quando una nuova ondata migratoria celtica si è riversata nella Pianura Padana da ovest. Già da secoli popolazioni di origine celtica vivevano nella Pianura Pa
dana centrale e occidentale, ma avevano pochi contatti con i Paleoveneti: i loro scambi commerciali avvenivano principalmente tra i valichi delle Alpi occidentali e la bassa pianura abitata dagli Etruschi. Ma qualche decennio fa, appunto, nuove migrazioni hanno sconvolto la situazione: le nuove popolazioni, spinte da un periodo freddissimo nel nord Europa che ha gelato raccolti e reso più difficile vivere oltre le Alpi, sono arrivate in Italia “affamate” di terra, di benessere, insomma sono arrivate con un’aggressività che la nostra pacifica Pianura Padana non conosceva più da molto tempo. Una tribù, addirittura, circa quarant’anni fa ha invaso il cuore dell’Etruria. Gli Etruschi hanno chiesto aiuto a Roma, che da qualche tempo è la più forte tra le città del Lazio, ma quando l’esercito romano è intervenuto è stato sonoramente battuto, e i celti sono scesi fin giù a Roma, saccheggiandola, salvo poi abbandonarla per tornare verso nord. I Romani li chiamano Galli, perché a detta loro vengono dalla Gallia.

Un abitato celtico di confine
Comunque, in questo periodo turbolento, noi siamo stati fortunati: tra le popolazioni celtiche di recente immigrazione, l'unica tribù che si è spinta fin qui a est è quella dei Cenomani, che è tra le più pacifiche. I Cenomani non hanno attaccato i Veneti (anche perché probabilmente i Veneti li avrebbero sconfitti), hanno semplicemente occupato un’area geografica di confine, stanziandosi in un piccolo abitato su un altura che chiamano Briks (Brescia) e poi popolando i territori circostanti, dal basso lago fin qui nel Veronese. E pensare che, secondo alcuni, i primissimi paleoveneti, quando erano ancora una popolazione povera e di recente immigrazione, vivevano proprio qui tra l’Adige e il Garda, mentre ormai già da secoli questo territorio è zona di confine per i Paleoveneti. Per questo non ci sono stati veri e propri scontri quando alcune genti cenomane sono venute ad abitare qua in zona.

Una famiglia di celti cenomani in buoni rapporti con
le popolazioni paleovenete del luogo
Qua nel Veronese infatti i Cenomani si sono integrati gradualmente, attraverso matrimoni e l’accettazione della cultura veneta preesistente. Va detto che, pur parlando una lingua diversa, gli usi e costumi dei Cenomani non sono poi così diversi da quelli dei Paleoveneti. Un’innovazione molto utile che i celti hanno portato è il carro agricolo: probabilmente i primi paleoveneti a utilizzarlo sono stati proprio quelli delle nostre zone. Una piccola differenza nella “moda” dei due popoli è che mentre gli uomini paleoveneti si radono i capelli, i celti se li lasciano crescere.

Probabilmente proprio in questi anni, grazie proprio all’immigrazione di famiglie cenomane, il territorio bussolenghese conosce nuovamente un popolamento. Ricomincia così a formarsi un sostrato socio-culturale sul nostro territorio, dopo essere stato per secoli territorio di confine probabilmente non abitato stabilmente. Questo nuovo sostrato è una graduale ma intensa integrazione tra la cultura veneta e quella celtica. Ed è proprio questa cultura che troveranno i Romani tra 150 anni, quando arriveranno qui.