martedì 13 ottobre 2020

Sudafrica: le Origini - 4 (i Bantu)

Siamo arrivati alla nostra ultima puntata della serie "Sudafrica: le Origini", serie che racconta chi popolava il Sudafrica durante le centinaia di migliaia di anni prima dell'arrivo dei colonizzatori europei. Questa è una puntata densa e molto interessante perché alla fine ci introdurrà a ciò che era il Sudafrica dei popoli nativi quando arrivarono i colonizzatori. Ma cominciamo da quasi due millenni prima di allora.

Come abbiamo visto nei post precedenti, decine di migliaia di anni fa gli antichi esseri umani in Sudafrica già si erano già dotati di certe invenzioni (come arco e frecce, uso di colori d'ocra, uso di giacigli e "lenzuola" ricavati da vegetali) molto prima che in altre parti del mondo, almeno per quanto le scoperte archeologiche ci hanno rivelato finora. Eppure, a partire da circa ventimila anni fa, o prima, in altre regioni del mondo gli umani avevano cominciato una serie di evoluzioni che li avrebbero portati nel giro di poche migliaia di anni a inventare l'agricoltura, poi villaggi stanziali e poi città, e infine veri e propri imperi.

Nell'Africa meridionale incece, rimasta da sempre isolata dal resto del mondo, ancora fin verso l'era della nascita di Cristo i Khoesān erano gli unici abitanti a vivere in queste terre immense, piene di natura e di cacciagione. Non avevano conosciuto l'invenzione dell'agricoltura, e tantomeno la fabbricazione dei metalli. Usavano ancora strumenti di pietra, molto affilata e spesso usata su lance e frecce, ma pur sempre pietra. Una popolazione khoesān, i Khoekhoen (che significherebbe "la vera gente" nella loro lingua), migrati in Sudafrica da nord forse intorno alla metà del I millennio a.C., erano allevatori (molto probabilmente appresero l'allevamento dopo essere entrati in contatto con popolazioni pastorizie di origini cuscitiche dell'Africa centro-orientale, e poi le migliori condizioni di vita garantite dall'allevamento gli permisero di espandersi e migrarono a sud fino in Sudafrica), mungevano le loro bestie e vivevano in tribù semi-stanziali che si basavano ancora comunque sulla raccolta di frutti e vegetali (e non sull'agricoltura) e sul baratto (di sicuro non usavano denaro). Tutti gli altri khoesān sudafricani, che si chiamavano Sān (sān nella loro lingua significa semplicemente "raccoglitore"), dal canto loro avevano perfino rifiutato di adottare l'allevamento come invece avevano fatto i loro cugini Khoekhoen, e vivevano di caccia e raccolta, prevalentemente in stile nomade, come i loro antenati di centinaia di migliaia di anni prima, tranne per il fatto che avevano affinato qualche tecnologia, come appunto arco e frecce (usando tipicamente frecce avvelenate, ricavando il veleno da una pianta indigena), o tecniche particolari di fusione delle ocre o di tessitura dei vegetali per creare vesti e giacigli, e anche un gusto artistico particolare come testimoniano le decorazioni di gusci d'uova di struzzo e le pitture rupestri. Tutte cose che abbiamo visto nel precedente post. Ma, come si capisce, era un mondo assolutamente diverso da quello dei grandi architetti di piramidi e templi dell'antico Egitto, o dei grandi filosofi greci e cinesi, o della grande potenza militare dei persiani. Era un mondo che tutti gli altri popoli, non solo del Mediterraneo ma probabilmente anche di altre regioni africane, avrebbero definito "primitivo".

Ma è davvero possibile che queste terre, per quanto lontanissime, fossero rimaste così isolate in un mondo che cominciava a essere sempre più interconnesso? C'è un racconto del greco Erodoto che parla di antichi navigatori fenici che, incaricati dal faraone egiziano dell'epoca, nel VII-VI secolo a.C. sarebbero riusciti a circumnavigare l'Africa. Se così fosse, le coste sudafricane sarebbero state costeggiate da navi egizie già a quell'epoca. E poiché l'equipaggio, secondo il racconto di Erodoto, si fermava periodicamente anche per lunghi periodi in attesa della stagione propizia per ripartire (l'intero viaggio di circumnavigazione sarebbe durato tre anni), sbarcando in luoghi adatti dove sostava addirittura per periodi così lunghi da avere il tempo di seminare e attendere il raccolto, si può dire che l'agricoltura forse venne introdotta in Sudafrica, in modo del tutto estemporaneo, da navigatori fenici di passaggio! Chissà, sempre se sia vero questo resoconto, se quegli antichi viaggiatori avvistarono le popolazioni indigene Khoesān o no. Quelli erano però gli ultimi tentativi dell'antico Egitto di rimanere una grande potenza, dopodiché, presto, arrivò la decadenza e l'addio per sempre a grandi spedizioni. Ma se davvero una tale spedizione avvenne, è possibile che nei secoli successivi, soprattutto durante l'espansione dell'Impero Romano, qualcuno pensasse di riprovare a navigare lungo le coste dell'Africa fino a sud dell'equatore? Probabilmente si: Claudio Tolomeo racconta di un mercante greco-romano di nome Diogene, che a cavallo tra il I e il II secolo d.C. navigò partendo dalle rotte commerciali del Mar Rosso e forse sarebbe arrivato fino alle coste delle attuali Kenya o Tanzania, per poi inoltrarsi all'interno fino ad avvistare i cosiddetti "Monti della luna", forse il Kilimangiaro.

Ma arrivare fino alla parte meridionale del continente africano, quello era un altro paio di maniche. Quel che è certo, secondo le scoperte archeologiche, è che alcuni popoli in Africa centro-settentrionale (tra cui nelle regioni delle attuali Etiopia e Somalia, o, dall'altra parte, della Nigeria) avevano ormai adottato l'agricoltura e intrapreso commerci con l'area mediterranea o del Medio Oriente. Le civiltà commerciali avanzate africane più "vicine" al Sudafrica erano quelle delle antiche Etiopia e Somalia, popolate da etnie di lingua cuscitica, che trovandosi all'imbocco del Mar Rosso avevano intensi scambi commerciali e culturali con il Mediterraneo e l'Oriente già da molti secoli. Ma queste regioni africane distavano dal Sudafrica più di 4000 chilometri attraverso giungle, savane e deserti, o, se si percorreva la costa, più di 5000 chilometri. E qui in Sudafrica non c'era nulla che potesse suscitare gli appetiti di quelle civiltà: geograficamente e da un punto di vista commerciale, esse appartenevano all'emisfero nord del mondo, in contatto con le grandi aree sviluppate del Mediterraneo, del Medio Oriente e dell'Oriente.

Ma anche in queste remote lande isolate dal mondo doveva prima o poi cambiare qualcosa. E quel qualcosa fu un movimento di popoli africani che dalle regioni centrali del continente migrarono verso sud, a partire da circa il 5000 a.C (ritengono gli studiosi), per arrivare in Sudafrica forse verso il primo secolo dell'era cristiana. Oggi si parla di "espansione bantu", cioè di popoli accomunati dal parlare lingue di ceppo bantu. Etnicamente si parla anche di popoli Nguni. Non si hanno ovviamente fonti scritte che possano confermarlo: né i Khoesān né gli Nguni usavano la scrittura. Ma gli studiosi lo hanno ricostruito da studi linguistici oltre che archeologici.

Gli Nguni di lingua bantu, o i Bantu come più imprecisamente vengono chiamati, non furono un unico popolo che migrò in tutta l'Africa centrale. Ci fu bensì una lingua e cultura bantu, che si diffusero e propagarono a diversi popoli che le fecero proprie. Lo stesso termine "Bantu" non veniva usato da quei popoli per autodefinirsi, ma è stato coniato dagli studiosi del XIX secolo, ricreandolo dalle radici di quella lingua che stavano studiando: "bantu" significherebbe quindi "gente" o "umani" nell'antica lingua bantu (tracce della quale si possono ancora oggi osservare in alcune lingue moderne come lo zulu, dove "abantu" significa proprio "gente").

Questa cultura includeva l'adozione dell'agricoltura e dell'allevamento, e l'utilizzo dei metalli: avevano strumenti e armi in ferro e rame, fatto ormai comune da secoli nell'Africa centrale, ma assolutamente nuovo nella parte più meridionale del continente. Sapevano produrre utensili di terracotta e vivevano in villaggi autosufficienti di capanne di canne e fango, coltivando sorgo e fagioli e allevando bestiame.

Certo, in confronto ai popoli cuscitici dell'Africa orientale, soprattutto quelli vicino alle coste, che avevano contatti commerciali con le navi provenienti dal Mar Rosso, anche questi bantu apparivano "primitivi". Ma in confronto ai Khoesān avevano decisamente una tecnologia superiore. Forse fu proprio per questo che, nel corso del millennio precedente, gran parte delle diverse popolazioni di cacciatori-raccoglitori dell'Africa centrale erano state assimilate a questa cultura, o si erano estinte (i pigmei dell'Africa centrale sono le uniche popolazioni di cacciatori-raccoglitori dell'Africa centrale ad aver mantenuto intatto il loro antico stile di vita fino a oggi). Ora, questi nuovi individui bantu avevano infine raggiunto anche il Sudafrica.

Ma all'inizio, e fino al V secolo, la migrazione fu lenta. Come interagivano i nuovi arrivati di lingua bantu con le popolazioni Khoesān? Gli studiosi ci dicono che i rapporti tra le due diverse etnie molto probabilmente variavano dall'aspro conflitto, a matrimoni misti, a una relazione di tipo rituale (probabilmente nel senso che alcune popolazioni Sān vedevano questi nuovi arrivati come possessori di una potenza superiore, o almeno è quanto sembra da alcune delle loro pitture rupestri). Anche se non abbiamo prove dell'interazione tra tribù bantu e khoesān (alcuni ritengono che le consonanti col click nelle attuali lingue dei discendenti dei bantu, come lo zulu e il xhosa, fossero state prese dalle lingue khoesān, di cui sono un tratto caratteristico, ma non ci sono prove che sia andata così), a medio e lungo termine l'effetto più evidente fu che gli invasori bantu, stanziandosi in aree sempre più vaste, finirono per scacciare i Khoesān verso le regioni interne più inospitali.

Si hanno tracce di scambi commerciali, intorno al VII-VIII secolo, di imbarcazioni arabe sulle coste sudafricane nordorientali: un chiaro segno che su queste coste, a quell'epoca, vivevano popolazioni bantu (abituate a scambi commerciali con altri popoli) e non più solamente popolazioni khoesān.

Per la prima volta nella storia della loro plurimillenaria esistenza, i Khoesān sudafricani venivano in contatto con un popolo diverso, e l'incontro non fu certamente dei migliori. Troppa era la diversità tra loro, gli stili di vita delle due etnie erano incompatibili. Inoltre, questi invasori bantu avevano una cultura dell'espansione e della conquista, almeno dove potevano (non poterono per esempio mai espandersi in Africa orientale, territorio di popolazioni che vivevano con uno stile di vita più sofisticato).

Passarono i secoli. In assenza di fonti scritte non sappiamo cosa successe fino attorno all'anno 1000, ma poco importa. Perché quelle erano popolazioni che non registravano il passare degli anni e gli eventi come facciamo noi. Erano culture che tramandavano le loro conoscenze oralmente di generazione in generazione, mantenendo sempre lo stesso stile di vita. D'altronde, non era ciò che era sempre successo dall'alba della nostra specie, e anche prima?

Ciò che sappiamo è che le popolazioni di cultura bantu, che durante il primo millennio dell'era cristiana affluivano in Sudafrica a più ondate, come abbiamo detto non appartenevano a un unico popolo Bantu, bensì erano diverse popolazioni che condividevano una lingua e una cultura comuni, o perlomeno simili. Alcune di queste popolazioni, antenate degli attuali Nguni (che includono gli attuali Zulu, Xhosa, Swazi e Ndebele), si stabilirono presso le coste orientali. Altre, antenate degli attuali popoli Tswana, Pedi e Sotho (ma "cugine" degli Nguni), si stanziarono sul vasto altopiano dell'interno sudafricano. Altre ancora, antenate degli attuali Venda, Lemba e Tsonga, si fermarono nella regione più settentrionale dell'attuale Sudafrica (regione dell'odierno Limpopo).

Sappiamo anche che in alcune zone dell'Africa australe, tra cui anche in Sudafrica, sono state fatte scoperte sporadiche ma eccezionali di monete tardoromane e bizantine, segno che fin dalle prime immigrazioni bantu, questi nuovi popoli erano in contatto con le direttive commerciali dell'Oceano Indiano.

Legata in qualche modo a queste rotte commerciali è una società che sorse nell'XI secolo nel Sudafrica settentrionale presso i confini con l'odierno Zimbabwe. Era la città-stato di Mapungubwe. Tribù locali si erano aggregate per formare una comunità stanziale più grande, forse a causa dell'incremento di popolazione in quell'area fertile, alla confluenza tra due fiumi (lo Shashe e il Limpopo). Era una comunità basata sull'agricoltura e sul commercio, ma anche sulla stratificazione sociale, con tanto di nobili e di regnanti, una cosa impensabile per le arcaiche comunità khoesān. La ricchezza della classe regnante si alimentava con il commercio dell'oro e dell'avorio proveniente da qualche centinaio di chilometri più a nord (odierno Zimbabwe). L'epoca d'oro del regno di Mapungubwe fu tra il XII e il XIII secolo. Nelle sepolture reali di Mapungubwe sono stati ritrovati addirittura oltre 200 chili d'oro, tra cui bracciali, uno scettro e un poggiatesta, e oggetti di legno rivestito di lamine d'oro, come per esempio alcune statuine raffiguranti rinoceronti. I ricchi venivano sepolti con manufatti di questo tipo, oltre che altri oggetti in rame e con perle di vetro. Un altro fatto assolutamente nuovo per il Sudafrica di allora è che Mapungubwe, situato sulla cima di una collina, aveva mura di pietra che delimitavano certe abitazioni importanti, e l'abitato stesso. Le residenze delle persone importanti erano anche costruite su piani rialzati rispetto al selciato: appare addirittura che il suolo sulla cima della collina, circa duemila tonnellate di terra, fu trasportato lì artificialmente, in epoca peraltro non identificata. Insomma, anche se questa società non usava la scrittura e quindi non abbiamo fonti scritte su di loro, le scoperte archeologiche ci dicono che questa era la prima società dell'Africa meridionale strutturata in maniera altamente gerarchica, addirittura con un rapporto forse sacrale nei confronti della leadership, si ritiene. Inoltre, fatto che ha scompaginato gli studi su Mapungubwe, due degli undici scheletri studiati in loco sono geneticamente appartenenti all'etnia khoesān, ma sono sepolti nello stile bantu (rannicchiati abbracciandosi le ginocchia sul petto, e rivolti a ovest), e dagli oggetti con cui erano sepolti si capisce che erano di alto rango: forse, chissà, avevano antenati khoesān poi assimilati dai bantu. Comunque è un segno che quella era una società inclusiva, dove probabilmente i bantu avevano assimilato e non distrutto le popolazioni che vivevano in quelle terre prima del loro arrivo.

Nel XIII secolo, il regno di Mapungubwe era un centro di commercio avanzato per quella regione. Attraverso il fiume Limpopo, importava merci ed esportava oro e avorio verso i maggiori centri commerciali della costa sull'oceano (negli attuali Mozambico e Tanzania), dove a quell'epoca commerciavano mercanti arabi e dell'Oriente. Era una società basata su commercio, agricoltura, allevamento (avevano anche cani domestici oltre che bestiame, capre e pecore), manifattura di metalli, e che accumulava ricchezze e raccolto, con una popolazione che, sulla sola collina di Mapungubwe, doveva aggirarsi sui 5000 abitanti. Era insomma qualcosa che in Sudafrica non si era mai visto! Ma proprio quando toccò il suo apice, questa società cominciò il suo declino. Secondo gli studiosi fu un raffreddamento climatico, che portò con sé sempre più pesanti siccità in questa zona, che spinse la popolazione ad abbandonare Mapungubwe nel XIV secolo, lasciandosi dietro solo le ricche sepolture reali. La società di Mapungubwe non si estinse ma si trasferì a nord, dove c'erano terre ancora fertili e dove, si ritiene, contribuì all'espansione del Grande Zimbabwe.

Qui in Sudafrica, decaduto Mapungubwe, la popolazione continuò a vivere con piccole tribù bantu guidate da capi locali. I Khoesān, quelli almeno che volevano mantenere il loro plurimillenario stile di vita da cacciatori-raccoglitori (o al massimo pastori-raccoglitori, nel caso dei Khoekhoen), erano ormai relegati in determinate aree del Sudafrica dove i bantu non erano arrivati a stanziarsi stabilmente, cioè la parte più meridionale e quella più occidentale del Sudafrica. Ma anche le popolazioni bantu, pur vivendo con agricoltura, allevamento e fabbricando metalli (praticamente vivevano nell'età del ferro, come si dice in gergo), si erano per così dire adagiati alla tranquilla vita del mondo sudafricano, isolato dal resto del mondo: non c'erano qui regni centralizzati come in gran parte del resto dell'Africa, solo molte piccole tribù autosufficienti.

Invece, nel resto del mondo, le cose si muovevano sempre più velocemente. Terminato il Medioevo europeo, per gli Europei cominciava l'epoca delle grandi esplorazioni navali. Fu così che, per la prima volta nella storia, navi europee cominciarono ad arrivare fino alle coste sudafricane. I primi furono i Portoghesi. Nel 1488 la spedizione al comando di Bartolomeu Dias, alla ricerca di una via per le Indie, riuscì, dopo terribili tempeste che rischiarono di far disperdere le navi nel mezzo dell'oceano, a toccare le coste più meridionali del continente africano, prima di tornare indietro da dove erano venute. La seconda spedizione, nel 1497, fu quella al comando di Vasco da Gama, che a differenza della precedente riuscì a costeggiare le coste sudafricane da ovest a est, per poi risalire il continente africano a est. Nel Natale di quell'anno i velieri stavano costeggiando le coste sudafricane nordorientali, e per questo motivo Vasco da Gama diede il nome Natal a quelle coste. E quel nome è rimasto fino a oggi: oggi quelle coste fanno parte della provincia sudafricana del KwaZulu-Natal. I marinai portoghesi fecero solo brevi sbarchi sulle coste sudafricane, giusto come soste per rifocillarsi di acqua fresca tra una traversata e l'altra. Nel 1510, di ritorno dall'India diretti verso la loro madrepatria il Portogallo, i velieri al comando di Fancisco de Almeida gettarono le ancore presso la baia del Capo di Buona Speranza (nome datogli dal re del Portogallo perché oltrepassato quel promontorio si apriva la via tanto agognata verso le Indie), una baia non ideale per l'approdo a causa delle forti correnti, ma tuttavia il meglio che si potesse trovare lungo le coste sudafricane, rocciose e senza baie. Era una breve sosta mirata a rifocillarsi di acqua fresca, prima della traversata finale verso casa. Là incontrarono un clan di khoekhoen, il clan Goringhaiqua. Forse nel 1510 non era la primissima volta che questi khoekhoen vedevano navi portoghesi di passaggio; ma anche così, chissà cosa i Goringhaiqua pensarono di questi "alieni" mai visti prima a memoria d'uomo sulle loro terre, dalla pelle scolorita e che parlavano un linguaggio totalmente incomprensibile, dalle vesti e dagli strumenti spaventosamente elaborati, e che per giunta arrivavano dal mare, a bordo di giganteschi legni galeggianti, invece che camminando via terra! In ogni caso, dopo un inziale shock culturale e probabilmente molta diffidenza, i soldati portoghesi e un gruppo di guerrieri Goringhaiqua (si, anche i pastori khoekhoen avevano i loro guerrieri) si approcciarono per barattare ciò che ciascuno aveva. I portoghesi avevano tabacco e strumenti in ferro e rame, i khoekhoen sapevano dove procurarsi acqua potabile e avevano la carne fresca delle loro mandrie di bestiame. Dopo degli iniziali scambi amichevoli, pare che un portoghese cercò di imbrogliare un guerriero khoekhoen, che per tutta risposta lo prese a bastonate. Forse per vendetta, il giorno seguente (o il giorno stesso) alcuni membri dell'equipaggio di Almeida fecero una visita al villaggio khoekhoen, poco distante, e fecero razzia del loro bestiame e forse anche di alcune donne e ragazzine con la forza, tant'è che ci scappò anche un morto. Subito l'affronto, i guerrieri khoekhoen pianificarono il contrattacco. De Almeida era rimasto sulla spiaggia con il suo manipolo di un centinaio di uomini o poco più, senza nemmeno le scialuppe, che erano andate a fare rifornimenti di acqua al fiume. I Goringhaiqua decisero di attaccare lì. Moderne ricerche basate sulle fonti portoghesi hanno ricostruito che un centinaio di guerrieri khoekhoen armati di lance attaccarono con tattiche di guerra i soldati spiaggiati, uccidendo de Almeida e 64 dei suoi uomini, di cui 11 capitani. Il corpo di Almeida fu ritrovato più tardi quel pomeriggio e sepolto insieme agli altri presso la costa, dove oggi si trova Città del Capo. Il resto dell'equipaggio si guardò bene dal dichiarare guerra ai khoekhoen, e levò tristemente le ancore per tornare in Portogallo. Due anni dopo, nel 1512, un altro veliero portoghese fece scalo per rifornimenti nello stesso luogo. A bordo c'erano anche un capitano della spedizione di Almeida e un parente di uno dei soldati uccisi. Sul luogo della sepoltura decisero di erigere una croce, che fu il primo memoriale europeo in terra sudafricana.

Ironia della storia umana, quegli europei che occasionalmente cominciavano, una volta ogni paio d'anni, a sbarcare sul suolo sudafricano per poi ripartire senza lasciare insediamenti, erano discendenti di Homo sapiens partiti proprio dall'Africa meridionale 200.000 anni prima (come abbiamo visto nel post precedente). A pensarci bene, ci era voluto un tempo compreso tra i 400.000 e i 200.000 anni fa alla nostra specie per evolversi in quello che è oggi geneticamente, senza che ciò comportasse grandi cambiamenti nello stile di vita. Ma nello stesso lasso di tempo, da 200.000 anni fa all'ultimo mezzo millennio della nostra storia umana, è avvenuta un'evoluzione tecnologica incredibile, mai vista non solo sulla Terra, ma, almeno per quel poco che ne sappiamo oggi (in attesa di eventuali smentite future), nemmeno nel resto dell'universo. Non si ragionerà mai abbastanza sull'incredibile accelerazione tecnologica di cui la nostra specie umana è stata protagonista.

Ma torniamo a noi. Nel Cinquecento e Seicento, mentre i primi europei cominciavano a costeggiare via nave le coste sudafricane, molto più all'interno nel nord del Sudafrica si sviluppava una nuova civiltà autoctona, molto originale. Era la civiltà Bokoni. I Koni, secondo recenti studi, erano diverse popolazioni bantu che confluirono in una sola regione (attuale Mpumalanga, nel Sudafrica del nord) e, fondendosi le une con le altre, finirono per diventare una popolazione con proprie caratteristiche. Il nome Koni è stato dato loro in realtà in epoca moderna, affidandosi a tradizioni orali che tramandavano il ricordo di "gente Koni". Nel XVI-XVII secolo si organizzarono su un altopiano del Mpumalanga e cominciarono a costruire innovative coltivazioni a terrazza a forme circolari, delimitate da muriccioli in pietra. Anche le stradine (o sentieri) che collegavano tra loro i campi circolari e le abitazioni, erano delimitate da muretti in pietra, probabilmente per evitare che il bestiame che circolava andasse a finire nelle terrazze coltivate, e per "incanalarlo" invece verso i campi riservati a pascolo. Era anche una società metallurgica, per così dire, come gran parte delle tribù bantu. Forgiavano ferro e rame per fabbricare armi e strumenti.

Un'altra società autoctona che ebbe un certo successo, sempre nelle regioni settentrionali dell'interno del Sudafrica, fu a partire dal XV-XVI secolo quella di Kaditshwene, un centro che fungeva da capitale culturale delle genti Bahurutshe, una delle tribù bantu di etnia tswana. Fondata presso un sito di depositi di ferro e rame, Kaditshwene divenne un centro di manifattura dei metalli e di commercio. Divenne a tal punto un punto di riferimento per quell'area, che arrivò ad avere sui ventimila abitanti, un caso eccezionale nel Sudafrica precoloniale!

Questi esempi di società autoctone locali sono state scoperte per caso in epoca moderna dai colonizzatori. Ma chissà se c'erano altre comunità dai tratti originali che non sono state scoperte e ormai non verranno scoperte più. Comunque, al momento dell'arrivo dei colonizzatori, gran parte del Sudafrica settentrionale e orientale era cosparso di una miriade di tribù bantu, a volte in relazioni tra loro di commercio, a volte di guerra. Il resto del Sudafrica era popolato dai Khoesān.

Per tutto il Cinquecento e la prima metà del Seicento navi portoghesi, e in seguito anche inglesi, francesi, olandesi e danesi, percorrevano ormai il tratto di oceano a sud del Sudafrica, nelle loro rotte verso l'Asia. Spesso, durante il viaggio, sostavano temporaneamente nella baia del Capo di Buona Speranza o nella baia di Saldanha Bay, sulla costa sudoccidentale del continente, per fare rifornimento di acqua. I navigatori europei, però, di qualsiasi nazionalità fossero, non erano interessati a queste coste che a loro apparivano rocciose, selvagge e desolate, completamente senza porti commerciali e abitate solo da indigeni primitivi.

Ma tutto questo sarebbe cambiato dopo il 1647. In quell'anno, un equipaggio olandese stava facendo sosta per rifornimenti presso il Capo di Buona Speranza, ma una nave rimase incagliata nelle basse acque della piccola baia presso la Table Mountain (collina chiamata così per la sua curiosa cima piatta, come una tavola) e dovette essere abbandonata. Buona parte del suo ricco carico però (spezie e ricche mercanzie dall'Asia) era salvabile. Quindi si decise che, mentre le altre navi sarebbero ripartite per l'Olanda, 62 membri di quella nave sarebbero rimasti lì a proteggere il carico fino a quando nuove navi fossero tornate a riprenderli. Stettero lì circa un anno, trasportando il carico a terra e costruendo un rudimentale accampamento. La loro esperienza con i Khoekhoen fu decisamente migliore di quella che avevano avuto i portoghesi di Almeida quasi un secolo e mezzo prima. Con loro barattarono carne fresca, e poi fecero anche esperienza di caccia loro stessi. Quando un anno dopo, nel 1648, un'altra spedizione olandese passò a recuperarli, questi naufraghi fecero una petizione affinché si potesse stabilire un piccolo insediamento presso quella baia, come punto di appoggio per le spedizioni di passaggio e che intrattenesse relazioni oneste e pacifiche con gli indigeni della zona, come avevano fatto loro. Fu così che nel 1652 la Compagnia olandese delle Indie orientali inviò una nuova spedizione, al comando di Jan van Riebeek, con l'esplicito compito di fondare una stazione di scalo e rifornimento per le navi olandesi nella rotta da e verso le loro colonie nelle "Indie orientali" (attuali Indonesia e Malaysia). Sarebbe diventato il primo nucleo di Città del Capo, il primo insediamento europeo in Sudafrica. Ma qui cominciava la storia degli Europei in Sudafrica, che potrò eventualmente affrontare un'altra volta. Questo post invece è dedicato ai Bantu. Ma che fine avevano fatto le tribù bantu, mentre gli Europei colonizzavano la punta meridionale sudafricana?

Come abbiamo detto prima, le varie popolazioni di diverse etnie che condividevano lingua e cultura bantu, popolavano da secoli ormai l'area del Sudafrica settentrionale e orientale. Erano miriadi e miriadi di diverse tribù, che afferivano a diverse etnie. Vivevano tutte con uno stile di vita da età del ferro, cioè erano strutturate in maniera tribale con un capo tribù, coltivavano la terra e allevavano capi di bestiame, producevano strumenti di terracotta, fabbricavano o barattavano metalli che venivano utilizzati per strumenti o armi, non usavano la scrittura e tramandavano oralmente le proprie conoscenze, come avevano fatto i loro antenati da sempre. Qualcuna di queste tribù si distingueva per tratti di originalità o di ricchezza, come per esempio i Bahurutshe o i Koni, che abbiamo visto prima. Alcune tribù erano più dedite al commercio o al baratto di altre. Ma questo equilibrio, che durava sostanzialmente invariato da un millennio, era destinato a crollare presto.

Il fattore scatenante fu l'incremento demografico. Secondo recenti teorie, una importante concausa iniziale fu l'importazione del mais sulle coste del Mozambico da parte dei Portoghesi. Il mais si dimostrò una coltivazione molto più produttiva di quelle locali, e che richiedeva anche meno manodopera per la sua piantagione e la sua cura. Questa nuova coltivazione, introdotta dalla fine del Seicento, nel corso di un secolo produsse un incremento demografico della popolazione costiera, dal Mozambico al Sudafrica nordorientale. Allo stesso tempo però, il mais richiedeva anche una maggior quantità di acqua e la disponibilità di grandi aree di terreno adatto alla piantagione, rispetto alle altre coltivazioni. Nei primi anni dell'Ottocento si verificò una siccità nel Natal, la regione costiera del Sudafrica nordorientale. La popolazione delle numerose tribù locali, spesso in forte rivalità tra loro, a causa di questa siccità si venne a trovare improvvisamente in situazione di sovrannumero rispetto alle risorse agricole venute a mancare. Fu come una miccia che fece esplodere lo scontro, che covava sotto la cenere.

In tutto questo va detto che dalla fine del Settecento le coste del Natal cominciavano a veder apparire talvolta navi inglesi in missioni esplorative, dal momento che nel frattempo il Sudafrica meridionale, con capitale Città del Capo, era diventato colonia inglese (come ciò avvenne non riguarda questo post, magari un post futuro). Un giorno dei primi anni dell'Ottocento, si dice, una spedizione di avventurieri inglesi di passaggio venne notata da un capotribù di nome Dingiswayo, il quale studiò i fucili e l'assetto militare di quella pattuglia esplorativa e decise di cercare di strutturare il proprio clan su quel modello. Dingiswayo era appena asceso a capo di una coalizione che includeva circa una trentina di tribù bantu di etnia Nguni, chiamata confederazione Mtetwa (mtetwa in bantu significa "colui che governa"). L'ambizioso Dingiswayo si mise in testa di portare la confederazione Mtetwa a soggiogare i popoli vicini per primeggiare sulla regione, sul modello di ciò che aveva fatto pochi decenni prima il clan nguni degli Swazi, poco più a nord, il cui capotribù si era imposto sugli altri clan confinanti fondando il regno dello Swaziland. Dingiswayo strutturò i guerrieri della confederazione Mtetwa secondo una catena di comando e si preparò a portare guerra nella regione.

Intorno al 1810 Dingiswayo stipulò un'alleanza tra gli Nguni della confederazione Mtetwa e gli Tsonga del nord, alleanza attraverso cui la confederazione cominciò a commerciare lucrosamente in avorio e altri beni con le colonie portoghesi delle coste mozambicane. Forse fu grazie a questo commercio che Dingiswayo riuscì a fornire regolarmente i suoi guerrieri di fucili, una novità questa per le tribù bantu sudafricane. Contemporaneamente, cominciò ad attaccare le tribù vicine che si mantenevano indipendenti dalla confederazione Mtetwa, affidando i raid ai suoi ufficiali, tra cui si distinse il giovane Shaka. In quello che si ritiene uno dei primi di questi raid, Shaka attaccò la tribù amaNgwane, espellendone gli abitanti da quel territorio. Gli amaNgwane scapparono vagando in altri territori, venendo a scontrarsi con altre tribù in un effetto domino che si ripeterà sempre di più negli anni successivi, e di cui parleremo tra poco.

La nuova aggressiva politica della confederazione Mtetwa intralciava i commerci e gli interessi di una potente tribù delle colline poco più a nord (proprio a metà strada tra la confederazione Mtetwa e le colonie portoghesi), gli Ndwandwe. Non passò molto, e tra Mtetwa e Ndwandwe fu guerra. Ma in un tentativo di invasione del territorio nemico, nel 1817 Dingiswayo fu catturato e decapitato per ordine del re degli Ndwandwe, Zwide. Con la morte di Dingiswayo la confederazione Mtetwa rischiò di sfaldarsi, ma le sue tribù si riorganizzarono affidandosi alla guida di Shaka, il più in gamba tra i generali di Dingiswayo. Shaka kaSenzagakhona (figlio di Senzagakhona) era il capo di un piccolo clan ininfluente, gli Zulu. Ma aveva dimostrato il suo valore di guerriero sul campo e adesso era il suo turno di salvare la confederazione dalla sconfitta. Avendo imparato da Dingiswayo, Shaka potenziò ancora di più l'assetto militare dei suoi guerrieri. Fece costruire delle nuove armi: una lancia corta con una lunga punta, e un grande e pesante scudo di cuoio. Il lato sinistro dello scudo serviva per agganciare il nemico, per poi pugnalarlo con la destra alle costole. Secondo le fonti tramandate oralmente, Shaka addestrava i suoi guerrieri a lottare a piedi nudi e a percorrere correndo 50 miglia su terreni caldi e rocciosi in meno di 24 ore; inoltre impose un sistema di vita comunitaria basato sul celibato per i guerrieri. La ferrea disciplina e il combattimento corpo a corpo caratterizzavano quindi il suo esercito, visto che anche l'importazione dei fucili, fortemente voluta da Dingiswayo, non poteva avvenire più così facilmente in una situazione di guerra permanente in cui la confederazione Mtetwa veniva tagliata fuori dalle vie commerciali che conducevano alle colonie portoghesi.

Shaka era il nuovo capo della confederazione Mtetwa, ma soprattutto era il capotribù degli Zulu, e in un mondo tribale come quello dei bantu, la propria tribù viene prima di tutto. Fu così che, ai nemici sconfitti, Shaka concedeva la possibilità di unirsi agli Zulu e i nuovi soldati conquistati venivano così considerati zulu a tutti gli effetti. Le tribù che invece rifiutavano di sottomettersi venivano scacciate dalle loro terre o sterminate: questa sorte toccò a ben una sessantina di tribù nel Natal, nel volgere di pochi anni. Appena tre anni dopo l'uccisione di Dingiswayo, i rapporti di forza con i Ndwandwe si erano ormai capovolti: nel 1820 Shaka e il suo esercito zulu sconfissero definitivamente il re Zwide e distrussero la capitale degli Ndwandwe. Ora Shaka aveva conquistato il predominio assoluto sulla regione. E grazie a lui gli Zulu, prima un piccolo clan, erano diventati ora il gruppo dominante nel nordest del Sudafrica, una vera e propria nazione. Shaka, lasciata perdere la confederazione Mtetwa, strutturò i suoi domini come un regno zulu, di cui lui e i suoi successori erano i regnanti assoluti. Ora il regno zulu si estendeva su 2000 chilometri quadrati, con 250.000 sudditi. Ma la spietatezza con cui venivano trattate le tribù ribelli (pare che gli Zulu consentissero solo alle donne e ai bambini di rimanere, mentre i guerrieri venivano uccisi o si davano alla fuga, sfogando a loro volta su altre tribù il medesimo trattamento che loro avevano subìto) provocò un effetto a valanga che ebbe conseguenze non solo nella regione del Natal, ma anche al di fuori: fu il fenomeno denominato Mfecane.

Si ritiene che il termine mfecane derivi da una parola zulu che raggruppa i significati di "schiacciare", "disperdere con la forza" e "migrazione forzata". Il termine venne introdotto solo nel Novecento per descrivere il periodo di disordini e migrazioni di popoli avvenuti nella prima metà dell'Ottocento. Come abbiamo visto, la tattica guerresca di Shaka, prima come generale di Dingiswayo e poi come capo militare, era di assalire i clan ribelli e disperderne con la forza i suoi abitanti. Alcuni studiosi ritengono che in genere le donne e i bambini venissero tenuti, per essere assimilati agli Zulu, mentre ad andarsene fossero i maschi adulti sopravvissuti. Questa tattica sistematica mise in movimento prima decine, e poi centinaia e centinaia di profughi guerrieri, che scappando dagli Zulu andavano a scontrarsi con altre tribù. Questi profughi guerrieri applicavano spesso la medesima tattica che loro avevano subito da parte di Shaka: assalivano altre tribù costringendole ad andarsene per occupare il loro territorio, e queste altre tribù finivano per scontrarsi con altre alla ricerca di un nuovo luogo dove insediarsi. Alla fine si ebbero effetti a catena devastanti, e tutta la regione del Sudafrica nordorientale fu percorsa da guerre tribali e da migrazioni di popoli. Bisogna tornare indietro di un millennio, all'epoca delle grandi migrazioni bantu, per osservare un qualcosa di simile nell'Africa australe. Si stima che le vittime dello mfecane si aggirino tra 1 milione e 2 milioni di morti in appena un quarto di secolo (più o meno dal 1815 al 1840).

Non tutto fu una catastrofe. I clan Xhosa per esempio, di etnia Nguni (come il clan Zulu e gli altri della ex confederazione Mtetwa) che vivevano sulle coste orientali più a sud (e che in quell'epoca già dovevano far fronte all'espansionismo degli Inglesi da Città del Capo), accolsero i profughi in fuga da Shaka e li integrarono pacificamente nella loro società. Ma altrove non andò così. Alcune tribù migrarono anche molto lontano, fino agli attuali Mozambico, Zimbabwe, Zambia e Malawi, portando nuovi scontri dove arrivavano. I clan delle montagne dei Drakensberg si allearono tra loro in funzione anti-Zulu e si trincerarono sulle loro inaccessibili montagne, fondando il regno del Lesotho. Le tribù bantu di etnia Tswana a cavallo tra Sudafrica e attuale Botswana (tra cui anche i Bahurutshe, cui abbiamo accennato prima come una delle società autoctone precoloniali), già da decenni avevano cominciato a sperimentare scontri a causa delle risorse venute a scarseggiare; ora l'effetto domino dello mfecane raggiunse anche quella regione, pur essendo lontana dai domini zulu.

Chi semina vento raccoglie tempesta, si dice. Così avvenne per Shaka, che venne assassinato a circa 40 anni d'età da un complotto ordito da due suoi fratellastri. Il fratellastro Dingane si prese il dominio sugli Zulu, e quello zulu divenne un vero e proprio regno ereditario, il più forte della regione. Ma il tessuto sociale precedente, basato sul sottile equilibrio tra una miriade di tribù, era stato disintegrato dalla mfecane. Secondo alcuni storici, questo favorì ancor più la colonizzazione da parte degli Inglesi. Il regno zulu (o impero zulu, come qualcuno lo chiama) rimaneva nella regione l'unico interlocutore dei nuovi aspiranti colonizzatori, e il suo atteggiamento bellicoso non giocava certo a suo favore. Gli Zulu infatti, finendo per scivolare nello scontro a causa di giochi diplomatici falliti, fecero il gioco degli Inglesi, che in quel periodo storico erano l'impero più potente del mondo e avevano tutto da guadagnare in uno scontro diretto. Qui la farò breve, essendo argomento che sarebbe da inquadrare nel Sudafrica coloniale, ma basti dire che prima della fine dell'Ottocento le popolazioni native del Sudafrica, khoesān o bantu che fossero, inclusi gli Zulu, vivevano ormai in una colonia inglese e in parte in una colonia boera (i Boeri erano i discendenti dei coloni olandesi di Città del Capo, migrati nelle regioni interne del Sudafrica).

Con buona pace dei Khoesān, che si erano ritirati nelle zone più remote e desertiche, in gran parte oltre i confini della Namibia e del Botswana, oppure erano stati "assimilati" andando a ingrossare le fila di quella casta sociale meticcia che poi sarebbe stata pesantemente oppressa durante il regime di apartheid, le loro vaste e ricche terre ancestrali che per centinaia di migliaia di anni erano rimaste isolate dal mondo, alla fine erano state invase, del tutto all'improvviso, senza preavviso, dalla modernità. Oggi rimangono poche migliaia di Sān "puri" (non mescolatisi con altre genti), in comunità isolate prevalentemente in Botswana.

E i popoli bantu? Nel Novecento hanno subito sulla propria pelle le discriminazioni da parte del regime razziale dei governi sudafricani bianchi, l'apartheid. Ma dopo il 1994, con la nascita della democrazia in Sudafrica, hanno riacquistato la libertà e per loro si è aperta una nuova epoca. Oggi in Sudafrica, soprattutto dopo la fondazione dell'Unione Africana nel 2002, si parla di nuovo panafricanismo e di agenda politica di black power, cioè di trasferire sempre più alla popolazione nera il potere decisionale ed economico del loro Paese. Questa, nonostante tutte le crisi economiche e i cambiamenti degli assetti socioeconomici precedenti che ciò comporta e comporterà, è in sostanza la nuova "primavera nera" dei popoli bantu, che giunsero per la prima volta in Sudafrica un millennio e mezzo di anni fa. Oggi non più divisi in tribù, ma uniti in un unico Paese, la Repubblica del Sudafrica.

lunedì 18 maggio 2020

Sudafrica: le Origini - 3 (i Khoesān)

Le ultime scoperte paleoantropologiche ci dicono che la nostra specie si evolse in Africa meno di mezzo milione di anni fa, probabilmente dall'Homo heidelbergensis.

Abbiamo terminato lo scorso post accennando all'evoluzione di alcuni Homo heidelbergensis sudafricani verso una nuova specie, il che avvenne proprio un po' dopo il mezzo milione di anni fa.
In Sudafrica, forse prima di 300.000 anni fa, accanto alle ultime popolazioni sopravvissute di Homo heidelbergensis stava facendo la sua comparsa una nuova specie, evolutasi da altre popolazioni heidelbergensis: l'Homo sapiens.
Un fossile depone a favore di questo scenario. È stato chiamato "teschio di Florisbad", dal nome del sito archeologico dove venne scoperto nel 1932, nel Sudafrica centrale. L'importantissima particolarità di questo teschio è che presenta caratteristiche miste, a metà strada tra gli Homo heidelbergensis e i primi Homo sapiens. Basandosi sui resti di smalto di un dente del teschio, analizzati con risonanza elettronica, il reperto è stato datato a un arco temporale compreso tra 295.000 e 224.000 anni fa.

Altri fossili in Africa scoperti negli ultimi decenni mostrano caratteristiche simili a quelle del teschio di Florisbad, cioè caratteristiche di passaggio tra Homo heidelbergensis e Homo sapiens. Il fatto importante è che queste recenti scoperte sono state fatte in diversi angoli del continente africano, perfino in Marocco (reperti di oltre 300.000 anni fa), non solo in Africa orientale o meridionale. Ciò ha fatto nascere una nuova interessante teoria: l'Homo sapiens non si sarebbe evoluto in una sola regione dell'Africa, ma diverse popolazioni sapiens sarebbero sorte separatamente in varie regioni del continente africano, evolutesi da diverse popolazioni di Homo heidelbergensis. Queste razze o forse addirittura sottospecie di sapiens, proprio come era successo per gli heidelbergensis, erano diverse tra loro in modo molto più marcato di quanto non lo siano gli umani moderni di oggi. Oggi si distingue (in modo grossolano e con criteri non scientifici) tra fenotipi africani, asiatici, bianchi... Ma i sapiens arcaici di 300.000 anni fa, sparsi per l'Africa (non ancora fuori dell'Africa), avevano diversità morfologiche derivanti dall'essere probabilmente i prodotti genetici di popolazioni heidelbergensis molto diverse tra loro, e non solo: come sappiamo in quell'epoca in Sudafrica esisteva anche l'arcaico Homo naledi, e gli studiosi ritengono che potessero anche avvenire accoppiamenti tra Homo nalediHomo heidelbergensis e questi stessi Homo sapiens arcaici. E questo vale per qualsiasi altra regione dell'Africa, dove ancora esistevano altre specie o sottospecie del genere Homo. Per questo in quell'epoca preistorica avrebbe senso parlare di sottospecie o di razze di Homo sapiens diverse tra loro, mentre per noi umani di oggi parlare di razza non ha alcun valore scientifico, perché spesso le differenze genetiche (tra l'altro risibili) sono maggiori tra individui dello stesso gruppo che tra gruppi apparentemente lontani. Per esempio, è attestato scientificamente che oggi un africano e un asiatico, o un bianco, possono essere talvolta geneticamente più vicini tra loro di quanto lo siano con membri dei loro stessi Paesi di provenienza. Questo la dice lunga su quanto la nostra specie si sia mescolata nel corso di decine di migliaia di anni.

Torniamo a 300.000 anni fa. Le diverse popolazioni di sapiens arcaici che vivevano negli angoli più disparati del continente africano, separate da distanze geografiche abissali (per loro) e da barriere naturali (giungle, montagne), evolsero per lo più isolate tra loro, magari anche accoppiandosi con altre specie Homo che vivevano nelle loro stesse regioni e sviluppando caratteri morfologici e sociali originali, diversi per esempio tra i sapiens sudafricani e quelli del Marocco. Periodicamente, a causa di cambiamenti climatici che rimodellavano il paesaggio, facendo inverdire i deserti o asciugando le umide giungle tropicali, queste diverse popolazioni avevano occasione di venire in contatto e di mescolarsi geneticamente, mentre in altri periodi nuovi cambiamenti o migrazioni le facevano separare, tornando a isolarsi per migliaia di anni. Eventi di isolamento e di mescolanze genetiche sarebbero avvenuti a più riprese nel corso di decine di migliaia di anni, fino a quando la mescolanza genetica avrebbe avuto la meglio e sarebbe venuta fuori la nostra sottospecie Homo sapiens sapiens, l'uomo moderno. Studi genetici effettuati nel 2019 affermano che tutta l'umanità di oggi deriverebbe geneticamente dalla mescolanza di popolazioni sapiens tra l'Africa orientale e meridionale, in un arco di tempo tra i 350.000 e i 260.000 anni fa. Oggi nel mondo scientifico non si parla più di sottospecie sapiens sapiens, ma si preferisce considerare l'umanità di oggi semplicemente come specie Homo sapiens. Però è altrettanto consolidato ormai tra gli studiosi che tra 350.000 e 200.000 anni fa ci fossero, come detto, diverse sottospecie o almeno, come minimo, razze di Homo sapiens, e che alla fine la nostra ebbe la meglio nel percorso evolutivo.

Ora che abbiamo visto la panoramica generale, torniamo al Sudafrica di 300.000 anni fa. Doveva essere un luogo molto interessante da osservare e studiare per i biologi e paleontropologi, come era stato il periodo preistorico di 2 milioni di anni fa, che abbiamo raccontato nel post precedente. A differenza di 2 milioni di anni fa, 300.000 anni fa non esistevano più gli australopiteci, ma in ogni caso convivevano nella medesima regione ben tre diverse specie appartenenti al genere Homo: Homo naledi, Homo heidelbergensis e Homo sapiens. Esistono siti, come i due siti di Duinefontein, non lontano da Città del Capo, che presentano resti di strumenti in pietra usati da questi ominidi, risalenti tra i 400.000 e i 200.000 anni fa.
A partire da quelle epoche, forse a causa dell'espansione e del dominio tecnologico e sociale dei nuovi Homo sapiens, gradualmente le popolazioni restanti delle altre specie Homo, incluse quelle di Homo naledi, di Homo heidelbergensis e degli altri Homo sapiens arcaici, cominciarono ad andare verso l'estinzione. Ma non possiamo sapere fino a quando per esempio le ultime tribù di Homo naledi sopravvissero. I fossili in nostro possesso risalgono a un lasso di tempo che si spinge forse fino a 235.000 anni fa. Ma chissà se altri individui della stessa specie rimasero in giro ancora a lungo dopo quella data.

In quella che ai nostri occhi di oggi può sembrare un'esistenza che si protraeva uguale per migliaia e migliaia di anni senza avvenimenti, accadeva a volte qualche evento cataclismico. Come l'impatto meteoritico avvenuto più o meno 220.000 anni fa, una quarantina di chilometri a nord dell'attuale città di Pretoria, nella municipalità di Tswaing.
Nella pianura alberata di allora pascolavano o predavano specie animali simili a quelle attuali, come antilopi, elefanti, giraffe, leoni, leopardi, iene, e specie oggi estinte, come delle grandi zebre (Equus capensis) e gnu giganti (Megalotragus priscus). E sicuramente vivevano pure degli ominidi, tra cui probabilmente anche Homo sapiens.
In uno scenario tranquillo come quello appena descritto, un giorno di circa 220.000 anni fa (50mila anni più, 50mila anni meno) un meteorite attraversò in pochi secondi l'atmosfera terrestre a una velocità di molte volte superiore a quella del suono, e si andò a schiantare in quella placida pianura alberata. Fu un'esplosione immane, quasi cento volte più potente della bomba atomica di Hiroshima (ma senza radiazioni). Il suolo venne polverizzato nel raggio di diverse centinaia di metri, e a causa dell'onda d'urto, venti bollenti alla velocità di mille chilometri orari seminarono morte e distruzione in un raggio fino a quasi di venti chilometri dal luogo dell'impatto. Si stima che la vegetazione venne distrutta o severamente danneggiata in un'area compresa tra gli 800 e i 2000 chilometri quadrati, e che anche gli animali e gli ominidi che si trovavano a una ventina di chilometri di distanza rimasero come minimo feriti a causa dell'onda d'urto (per non parlare di quelli che si trovavano più vicino, che morirono). L'impatto generò un cratere profondo un centinaio di metri e largo oltre un chilometro, che esiste tutt'oggi, e che col tempo si riempì di acque di risorgiva e pluviali.
Forse alcuni Homo sapiens rimasero vittime di quell'esplosione e probabilmente altri che vivevano nell'area circostante ne furono testimoni da lontano. Chissà con quale shock vissero un tale catastrofico evento, che non potevano riuscire a spiegarsi. Considerando che le loro funzioni cerebrali erano ormai in tutto simili alle nostre (o, nell'ipotesi più prudente, per lo meno molto simili), forse si tramandarono tra loro, per generazioni e generazioni, la memoria di quella tragedia. Forse tale evento spinse qualcuno di loro a domandarsi se per caso non fosse avvenuto a causa di una forza superiore e onnipotente... Chissà. In ogni caso si trattò di un cataclisma locale: gli animali e gli umani che vivevano lontano da quell'area continuarono le loro vite senza rendersi conto di ciò che era successo in quel luogo, nel quale in ogni caso nel giro di qualche decennio piante e animali ricominciarono a crescere e a vivere. E si hanno tracce che almeno a partire da 100.000 anni fa gli umani frequentavano il sito del cratere per prelevare il sale, visto che l'acqua nel cratere ha una concentrazione salina molto elevata.

E qui arriviamo a parlare di chi erano questi nuovi umani. Forse fu a partire già da oltre 200.000 anni fa che una delle popolazioni di Homo sapiens con sue caratteristiche proprie di gruppo, cominciò a diffondersi nell'Africa meridionale, rimanendo separata geneticamente rispetto agli altri Homo dell'epoca, e dando vita a un gruppo umano i cui discendenti esistono ancora oggi: sono le popolazioni raggruppate sotto il comune nome Khoesān. I Khoesān tutt'oggi vivono in aree isolate dell'Africa meridionale e sono quindi gli Homo sapiens geneticamente di più antica origine tra quelli oggi esistenti. Oggi sono stimati esistere meno di 400mila Khoesān, divisi in due popolazioni distinte: circa 300mila Khoekhoen e circa 90mila Sān (contando anche quelli con sangue misto bantu, ma si ritiene che quelli puri siano rimasti in meno di 15.000 individui), in aree isolate tra Botswana, Namibia e Sudafrica (i Sān in passato venivano chiamati Boscimani, e i Khoekhoen venivano chiamati Ottentotti).

Quel che è quasi certo è che a partire da 200.000 anni fa i Khoesān si stavano espandendo in tutta l'Africa meridionale e orientale a sud dell'equatore, diventando la popolazione di Homo sapiens più numerosa. Il sito archeologico di Border Cave, nel Sudafrica settentrionale presso il confine con lo Swaziland, attesta la presenza umana a partire da 200.000 anni fa.
Da 195.000 a 123.000 anni fa il mondo attraversò un'era glaciale e in Africa l'ambiente diventò più secco e arido. Eppure risalgono proprio a questo periodo di tempo delle straordinarie scoperte sul più antico comportamento della nostra specie, scoperte che negli ultimi vent'anni hanno costretto a riscrivere la nostra preistoria più antica. Gli studiosi non si possono sbilanciare nel dire se gli umani in questione fossero antichi Khoesān, perché nella grande maggioranza dei casi sono stati ritrovati manufatti ma non resti umani. È probabile che lo fossero comunque, perché come detto erano loro il gruppo umano più numeroso in Africa meridionale all'epoca.
In uno studio del 2015 alcuni ricercatori hanno sostenuto che nella Wonderwerk Cave, nel Sudafrica centrosettentrionale, siano stati trovati "manuporti" (pietre non modificate dall'uomo ma trasportate dall'uomo in posti diversi da quelli di origine) portati negli strati più profondi della caverna oltre 180.000 anni fa, in strati della grotta che presentano particolari caratteristiche acustiche e visive. Queste pietre sarebbero state portate là, nell'opinione di questi ricercatori, per un certo motivo e forse con un certo significato simbolico. Sarebbe quindi, secondo loro, un indizio di una presenza del senso simbolico nella mente dei Khoesān di oltre 180.000 anni fa.
Ma decisamente più empiriche sono le scoperte rinvenute in un sito molto più a sud, sulla costa meridionale del Sudafrica a meno di 400 km da Città del Capo, sul promontorio di Pinnacle Point. Una campagna di scavi iniziata nel 1999 in una grotta a 13 metri sul livello del mare ha rivelato ricchi resti archeologici, con focolari e strumenti di pietra risalenti anche a 165.000 anni fa. I piccoli strumenti litici sono di silcrete, una roccia la cui lavorazione richiedeva il riscaldamento per lungo tempo alla temperatura di 350 C°, cioè per mezzo di una tecnica che fino a poco tempo fa si riteneva avesse avuto origine in Francia nella molto più recente epoca del Solutreano (appena 20.000 anni fa). Sono stati inoltre trovati numerosi pezzi di ocra lavorati il che fa ritenere una preferenza, da parte di quegli antichi abitanti della grotta, per il colore rosso forse perché associato alla fertilità. È possibile anche che l'ocra venisse usata come pigmento sul corpo.
La raccolta dei frutti di mare su quelle coste può essere pericolosa in quanto questi organismi vivono sulle scogliere nella zona interidale, dove l'onda della marea di ritorno può travolgere il raccoglitore. La raccolta è sicura solo quando avviene durante il minimo livello di bassa marea. Poiché le maree sono legate alle fasi lunari, il paleontologo americano che ha scoperto il sito di Pinnacle Point, Curtis William Marean, ha ipotizzato che gli abitanti di quella grotta, fin da 165.000 anni fa, ricorressero a qualche calendario lunare, come fanno i moderni popoli costieri. La possibilità di accumulare mitili e frutti di mare in depositi per avere a disposizione cibo permanentemente, anziché dover muoversi ogni volta per cacciare selvaggina, favorì un'abitazione stanziale del luogo, e questo in ultima istanza favorì l'emergere sempre più di sistemi sociali complessi e del pensiero simbolico.
I reperti di Pinnacle Point hanno rivelato che capacità cognitive avanzate erano possedute da alcuni gruppi umani in epoche molto più remote di quanto si pensasse fino ad anni recenti. Forse, in un periodo glaciale come quello, posti come Pinnacle Point, ricchi in molluschi e piante commestibili, erano tra i pochi luoghi in cui gli umani potevano vivere.


Ma a partire da 130.000 anni fa, col graduale termine di quel periodo glaciale, si diffuse una nuova particolare cultura litica, la cosiddetta cultura sangoana, che dai manufatti ritrovati si estendeva come minimo tra le attuali Botswana e Uganda, e anche oltre, quindi sicuramente includeva almeno il Sudafrica settentrionale. Ancora oggi gli attuali Khoekhoen e Sān assomigliano morfologicamente agli antichi scheletri di epoca sangoana. La tecnica sangoana era in sostanza un'evoluzione dalla precedente acheuleana. Gli oggetti scheggiati, su due facce, non erano più solo pietre, ma anche ossa e corni di animali. Forse già a quell'epoca le popolazioni sangoane parlavano il linguaggio con le consonanti col "clic", tipico delle attuali popolazioni Khoesān, ed erano strutturate in tribù di cacciatori e raccoglitori.
Il sito archeologico delle Grotte del fiume Klasies, nel Sudafrica sudorientale, fatto risalire a circa 125.000 anni fa, ha restituito informazioni molto interessanti sulle popolazioni umane che lo abitavano, anche se gli studiosi non si sbilanciano a dire se fossero Khoesān o altri gruppi diversi di Homo sapiens. Dai resti è emerso che quegli antichi abitanti cacciassero piccola selvaggina, raccogliessero piante, radici e fiori, e accendessero fuochi in focolari. C'è evidenza di raccolta di conchiglie e di cottura di piante, radici, carne di foche, pinguini e antilopi nei focolari. C'è anche segno di trattamento della terra e della prateria col fuoco, probabilmente per tenere il sito abitativo libero da vegetazione infestante. Allo stesso tempo, i segni sembrano indicare una presenza stagionale o migratoria, non fissa. E poi, ci sono anche tracce di ossa umane carbonizzate, tranciate e buttate assieme ai resti dei pasti. Chissà se si trattava di cannibalismo rituale o semplicemente di sopravvivenza.

Negli anni '90 venne scoperta una grotta sulla costa a 300 km a est di Città del Capo, nel sito archeologico di Blombos, che si rivelò essere uno scrigno contenente molte rivelazioni sulle popolazioni sudafricane di 100.000 anni fa.
Nel 2008 nel sito è stata scoperta quella che doveva essere una fucina per produrre pigmenti, risalente appunto a circa 100.000 anni fa. Delle analisi hanno mostrato tracce di liquido colorato collezionato in appositi gusci di conchiglia usati come contenitori, e tra gli "oggetti del mestiere" sono stati ritrovati resti di ocra, carbone, ossa, e pietre con la funzione di mole e martelli. Il processo di estrarre materiale grezzo e di lavorarlo richiedeva capacità non solo tecniche, ma anche di immaginazione, astrazione e organizzazione mentale: immaginarsi cosa sarebbe diventata la terra di ocra grezza al termine del lavoro, e attraverso quali processi, è un segno di assoluta modernità per come intendiamo noi questo termine.
Non solo. Nel sito furono ritrovati pezzi di ocra incisi con disegni geometrici regolari, punte di lancia, utensili in osso, perle e parti di collane e braccialetti ricavati dalla lavorazione di piccole conchiglie. La gran parte di questi oggetti è stata scavata in strati datati tra gli 80.000 e i 75.000 anni fa. Ciò significa che gli abitanti della grotta di Blombos di quell'epoca si dedicavano anche a creare ornamenti estetici, e anche oggetti con disegni simbolici. La presenza di questi ultimi in particolare ha fornito la prova che gli abitanti del Sudafrica di quell'epoca erano decisamente in grado di elaborare pensieri simbolici astratti, oltre che dedicarsi a passatempi estetici, come testimonia la presenza di conchiglie lavorate in braccialetti e collane.
Tutto questo ha dell'incredibile se si pensa che appena poco più di 100.000 anni prima esistevano ancora gli arcaici Homo naledi, che avevano vissuto ancora allo stesso modo in cui gli australopiteci vivevano due milioni di anni fa. In soli 150.000 anni si era passati da ominidi antichi (gli stessi Homo heidelbergensis, pur essendo socialmente già molto sviluppati, non potevano competere con le capacità tecnologiche di questi nuovi Homo sapiens) a umani in tutto e per tutto simili a noi!

Circa 75.000 anni fa, una catastrofica esplosione di un supervulcano ebbe luogo nel Lago Toga nell'attuale Indonesia. Fu probabilmente il più grande evento eruttivo negli ultimi 25 milioni di anni. Il genere Homo, nato appena dai 2 ai 3 milioni di anni fa, ma anche tanti altri generi animali, non avevano mai assistito a un disastro ambientale simile, e molti studi ritengono che le conseguenze di questo evento portarono molte specie vicino all'estinzione. Si ritiene che, a parte le terribili distruzioni avvenute nella regione dell'esplosione, ci fu poi una dispersione di cenere vulcanica nell'atmosfera che coprì la luce solare su buona parte del pianeta per un tempo dai sei ai dieci anni, e forse per ben un migliaio d'anni la temperatura precipitò a livelli più freddi di prima. Considerando che il pianeta stava già attraversando un periodo di raffreddamento globale, questo evento fu come una mazzata per molte specie viventi. Recenti studi sostengono che l'Africa non sarebbe stata interessata da un sensibile raffreddamento, eppure, proprio attorno a quel periodo, si assiste a un assottigliamento genetico in diverse specie di mammiferi, tra cui anche negli scimpanzè dell'Africa centrale. Questo indica che le specie in questione in quell'epoca si ridussero di numero fino a poche migliaia di esemplari: probabilmente le conseguenze globali di quella esplosione portarono ad aridità e carestie in Africa.
Proprio come era successo durante la terribile lunga era glaciale 800.000 anni prima ai nostri antenati Homo erectus, anche la nostra specie, dicono i genetisti, intorno a 70.000 anni fa si ridusse fino a poche migliaia di individui in tutto il mondo, tra i 3000 e i 10.000. Questo spiegherebbe come mai ci sia quasi nulla diversità genetica tra noi umani di oggi. È il cosiddetto "collo di bottiglia" genetico, cioè un passaggio storico in cui tante popolazioni scompaiono, solo una manciata sopravvive, per poi moltiplicarsi in seguito e raggiungere la diversificazione che conosciamo oggi, a partire da quel "collo di bottiglia" di 70.000 anni fa. Tutti noi oggi discendiamo da quella manciata di poche migliaia di individui sopravvissuti.

Gli Homo sapiens quindi si ridussero come detto a qualche migliaio di individui in tutto. I maggiori interessati da questo decremento della popolazione furono i Khoesān, che all'epoca erano il gruppo umano più numeroso. Le tribù di Khoesān sopravvissute persero la predominanza demografica che avevano avuto fino ad allora sugli altri gruppi umani, ma continuarono a tramandare la loro cultura sangoana. Statisticamente è lecito pensare che la popolazione umana in Sudafrica tra i 75.000 e i 50.000 anni fa si fosse ridotta ad appena alcune centinaia di Khoesān in tutto!

Ma questo non frenò il loro cammino verso un progresso tecnologico e sociale, anzi sulle coste sudafricane è ormai attestato da alcune ricerche che la popolazione subì addirittura un incremento, e che in sostanza viveva più che bene.
Come era successo dopo il "collo di bottiglia" di 800.000 anni fa, i reperti successivi a 70.000 anni fa ci mostrano un improvviso miglioramento tecnico in tutti gli ambiti dello sviluppo umano.
Nel sito della Sibudu Cave, circa 40 km a nord della città di Durban, presso la costa orientale sudafricana, dagli anni '80 sono state fatte scoperte inaspettate e straordinarie. Già risalenti a circa 77.000 anni fa, precedenti alla catastrofe di Toba, sono i resti di costruzione di giacigli e lenzuola, intrecciati con foglie aromatiche contenenti insetticidi naturali, e si tratta dei resti più antichi rinvenuti al mondo. L'uso di erbe e vegetali con scopi igienici e forse medici testimonia un nuovo grado di sviluppo di questi umani. Altri resti più antichi al mondo, risalenti almeno a 71.000 anni fa, sono le tracce di un composto a base di gomma vegetale e ocra rossa, usato come colla per fissare punte di pietra a bastoni, per creare lance.
Altri reperti della Sibudu Cave risalgono a circa 61.000 anni fa e sono altrettanto straordinari. Si tratta dei più antichi aghi in osso, e delle più antiche frecce in osso, il che significa che questi Khoesān utilizzavano già arco e frecce oltre 60.000 anni fa (almeno 20.000 anni prima di altri ritrovamenti). Inoltre la presenza di un alto numero di resti di piccole antilopi ha fatto pensare all'uso di trappole e quindi a una caccia organizzata e premeditata.

Reperti simili sono stati trovati in un importante sito archeologico circa 800 km più a sud: il sito di Howieson's Poort Shelter, nei pressi di Grahamstown (Sudafrica sudorientale). Qui sono stati ritrovati manufatti così interessanti e importanti che da questo sito è stata postulata l'esistenza di una vera e propria cultura, chiamata cultura di Howiensons Poort, i cui tratti caratteristici si estendevano, tramite baratto probabilmente, fino al Sudafrica del nord, come hanno dimostrato reperti simili trovati nella Border Cave (quasi ai confini con lo Swaziland). Nel sito di Howiensons Poort, che è stato datato tra i 65.000 e i 59.500 anni fa, furono ritrovate armi di fabbricazione complessa, fatte di lame di pietra scheggiate in forme geometriche e unite tra loro grazie a ocra riscaldata e a un composto di gomma collosa simile a quello rinvenuto a Sibudu Cave (che era più antico di qualche migliaio d'anni). Forse a quegli ingredienti era aggiunta un po' di cera d'api o del grasso. Coloro che preparavano questa miscela dovevano conoscere bene le giuste dosi, e saper effettuare un riscaldamento appropriato di tale miscela, evitando di farla bollire o di farla seccare. Analizzando tutte le caratteristiche di questo preparato, i ricercatori hanno concluso che per effettuare questi lavori i Khoesān della cultura di Howiensons Poort dovevano avere un intelletto e astrazione mentale identici a quelli degli umani moderni. Anche l'esteso uso dell'ocra, che veniva polverizzata e quindi usata come pigmento, forse anche sul corpo, rimanda secondo gli studiosi a un universo anche simbolico degli umani di allora.

Risalgono a circa 60.000 anni fa altri segni tangibili del simbolismo di quegli antichi Khoesān. Nel sito di Diepkloof Rock Shelter, sulla costa occidentale, sono stati ritrovati 270 frammenti di gusci di uova di struzzo con incisioni geometriche.
La grotta era abitata fin da 130.000 anni fa, e sono stati rinvenuti frammenti di guscio risalenti a tutta l'epoca di occupazione della grotta, ma quelli con le incisioni risalgono al periodo della cultura di Howiensons Poort, intorno ai 60.000 anni fa.
I ricercatori ritengono che i gusci venissero usati come contenitori d'acqua. Le incisioni sono composte da numerose linee, di cui alcune tratteggiate. Uno dei frammenti presenta due linee parallele, che probabilmente dovevano correre in modo circolare attorno al guscio.
Queste incisioni mostrano lo sviluppo di una tradizione grafica condivisa dalla comunità. I numerosi esempi ritrovati mostrano che vi erano regole per la composizione dei disegni, ma in qualche caso anche spazio per l'iniziativa individuale.
I gusci d'uovo avevano un volume medio di un litro e probabilmente venivano usati nella quotidianità di quei cacciatori e raccoglitori Khoesān, usati forse come brocche o borracce. Qualche ricercatore ha fatto notare che i gusci d'uova di struzzo sono molto duri e inciderli non era facile e richiedeva abilità tecnico-manuali. Quindi non si trattava assolutamente di improvvisazioni, ma di segni che erano entrati a far parte della loro società, forse con precisi significati simbolici e sociali.

Come è chiaro dagli ultimi paragrafi, i ritrovamenti degli ultimi 200.000 anni in siti abitati o frequentati dalla nostra specie sono molto più numerosi e più ricchi di informazioni rispetto a tutti i ritrovamenti dei milioni di anni precedenti, e presentano inoltre scoperte che di anno in anno si fanno sempre più interessanti. È chiarissimo lo scarto intellettivo che la nostra specie ha raggiunto rispetto a tutti gli altri ominidi che ci hanno preceduti.
Ma va anche notato, sottolineano i ricercatori oggi, che in questi ultimi 200.000 anni non è che ci sia stato un cammino costante verso una direzione di "progresso". Piuttosto, si sono alternate culture, alcune anche dai caratteri sorprendentemente moderni, che però poi scomparivano, decadevano o regredivano, per cause che noi oggi, nella maggior parte dei casi, non riusciamo a decifrare.

I Khoesān di 50.000 anni fa, dopo il "collo di bottiglia" avvenuto 70.000 anni fa, gradualmente ripresero ad aumentare di numero, grazie anche al fatto che non avevano competitori.
Queste tribù di cacciatori e raccoglitori infatti rimasero a vivere nell'Africa meridionale isolate per decine di migliaia d'anni dal resto del mondo. Alcune di loro migrarono verso l'Africa centrale a più riprese, ma dagli studi genetici pare che invece non vi furono migrazioni esterne verso la regione più meridionale del continente africano per molte migliaia di anni. Quindi i Khoesān rimasero tranquillamente legati al loro stile di vita, pacificamente isolati da influenze esterne per tutta l'era "prima di Cristo".
Mentre gli Homo sapiens in Europa dovevano condividere un ambiente freddo e inospitale con gli Homo neanderthalensis, e in alcune zone dell'Asia con altre specie ominidi evolutesi dalle antiche diffusioni degli Homo heidelbergensis e sopravvissute al cataclisma di Toba, il Sudafrica, ricco di flora e fauna e dal clima ottimale, era rimasto tutto a disposizione dei Khoesān.

Nel frattempo il gruppo etnico Khoesān si divideva in popolazioni. Una era quella dei Sān che, secondo i paleoantropologi, già 100.000 anni fa era definitivamente formata e definita come popolazione a sé. Il termine sān nella loro lingua significa "raccoglitore", quindi designa non un'identità etnica bensì di stile di vita, da cacciatori-raccoglitori, appunto. Che era lo stile di vita, poi, che fino a qualche migliaio di anni fa accomunava tutte le popolazioni Khoesān. 
Un'altra di queste, che si formò molto più tardi come popolazione a sé stante, era quella dei Khoekhoen (che significherebbe "la vera gente" nella loro lingua). Anche questa non era un gruppo etnico diverso dagli altri khoesān, ma piuttosto una popolazione che si distinse dagli altri adottando uno stile di vita molto diverso: addomesticarono alcuni tipi di bestiame e diventarono pastori. In che periodo storico questo successe non è chiaro, ma dalle prove archeologiche gli studiosi hanno ricostruito che i Khoekhoen si strutturarono con questo stile di vita nei territori dove oggi c'è l'attuale Botswana, per poi diffondersi verso sud. I ricercatori ritengono che i Khoekhoen appresero l'allevamento dopo essere entrati in contatto con alcune tribù pastorizie di origini cuscitiche dell'Africa centro-orientale, in qualche momento nel I millennio avanti Cristo, e poi, grazie alle migliori condizioni di vita permesse dall'allevamento, finirono per muoversi su nuove terre fino a migrare a sud fino in Sudafrica.

A quell'epoca (I millennio a.C.) il Medio Oriente, l'Europa e la Cina avevano già passato la "rivoluzione" neolitica, con l'introduzione dell'agricoltura e dell'uso dei metalli, e in Mesopotamia ed Egitto (ma anche nel Mediterraneo con la civiltà minoica) già erano sorti imperi centralizzati e super organizzati, che avevano fatto esplodere il commercio su lunghe distanze e la ricchezza. L'antica Grecia stava già diventando una "culla" di cultura che in seguito avrebbe influenzato l'intero "mondo occidentale" fino ai nostri giorni.

Nel V secolo avanti Cristo, il greco Erodoto riportò un racconto secondo cui nel VII-VI secolo a.C. una spedizione navale egizia con navigatori fenici sarebbe riuscita nell'impresa di circumnavigare l'Africa. Se così fosse, le coste sudafricane sarebbero state costeggiate da navi egizie già a quell'epoca. E poiché l'equipaggio, secondo il racconto, si fermava periodicamente anche per lunghi periodi in attesa della stagione propizia per ripartire (l'intero viaggio di circumnavigazione sarebbe durato tre anni secondo il racconto), sbarcando in luoghi adatti dove sostavano addirittura per periodi così lunghi da avere il tempo di seminare e attendere il raccolto, si può dire che l'agricoltura forse venne introdotta in Sudafrica, in modo del tutto estemporaneo, da navigatori fenici di passaggio! Chissà, sempre se sia vero questo resoconto, se quegli antichi viaggiatori avvistarono le popolazioni indigene Khoesān o no.
Chissà, oltretutto, se altre spedizioni navali antiche raggiunsero le coste sudafricane. Sembra altamente improbabile (leggete il prossimo post per più dettagli), e in ogni caso non ne abbiamo traccia.

Comunque, arrivati ormai ai secoli immediatamente precedenti la nascita di Cristo, altri popoli in Africa centro-settentrionale (anche nelle regioni delle attuali Etiopia e Somalia, o, dall'altra parte, della Nigeria). avevano ormai adottato l'agricoltura e intrapreso commerci con l'area mediterranea o del Medio Oriente.
Invece nell'Africa meridionale la maggiore innovazione era stata la pastorizia, adottata soltanto dai Khoekhoen, mentre i Sān vivevano ancora come i loro ancestrali antenati, decine e centinaia di migliaia di anni prima, cioè di caccia e raccolta, quindi con uno stile di vita nomade, non stanziale. Anche i Khoekhoen, pur essendo pastori, non avevano abbandonato la vita di raccoglitori di frutti e piante, cioè non avevano adottato l'agricoltura.
Come mai? Forse perché, mentre altri popoli avevano dovuto far fronte a cambiamenti climatici e ambientali avversi che li avevano costretti a cambiare stile di vita, in Sudafrica il clima, l'ambiente, i cacciatori e le prede, tutto rimaneva invariato da centinaia di migliaia di anni, e tutto era ideale per la vita dei Khoesān, che di conseguenza non dovettero cambiare il loro stile di vita, tranne i Khoekhoen provenienti dal nord del Botswana, che come detto arrivarono ad addomesticare del bestiame per farlo pascolare, invece che cacciarlo. Ma anche i Khoekhoen, pur con questo molto importante cambiamento, per il resto mantennero lo stile di vita di prima, legato al baratto e alle comunità di piccoli gruppi tribali, e non arrivarono neanche lontanamente alle innovazioni tecniche dei metalli, della scrittura o delle costruzioni di città.

Questo non significa affatto che le loro capacità intellettive fossero inferiori. Sono state scoperte pitture rupestri prodotte dai Sān in diversi luoghi dell'Africa meridionale, che testimoniano scene di vita, di caccia, animali, e anche rappresentazioni di individui accanto a del bestiame: forse il pittore sān voleva rappresentare individui khoekhoen accanto alle loro mandrie, o forse questa è una testimonianza che talvolta alcuni sān si prestavano a lavorare per pastori khoekhoen in cambio di cibo.
Le pitture rupestri sui monti Drakensberg, nel Sudafrica nordorientale, sono le più numerose concentrate nella medesima area, nell'intera Africa subsahariana. Le più antiche pitture sui Drakensberg risalirebbero al V o IV secolo a.C., ma sul posto sono stati trovati anche frammenti di colore di almeno un migliaio d'anni più antichi. I pittori usavano colori che spaziavano dal bianco e nero al rosso, giallo e arancio, ottenuti dalla mistione di argilla, carbone e ocre od ossidi di ferro.

E poi, avvenne ciò che Sān e Khoekhoen non avrebbero mai immaginato: un nuovo popolo africano immigrò nell'Africa meridionale, invadendo a più ondate i territori in cui da tempo immemore i Khoesān erano gli unici abitanti.
Si trattò di una delle più grandi migrazioni umane nella storia dell'Africa subsahariana, e soprattutto quella forse che produsse gli effetti più evidenti nella distribuzione etnico-linguistica delle popolazioni africane nell'Africa centromeridionale: viene chiamata "l'espansione Bantu".
Secondo alcuni ricercatori, i primi clan bantu entrarono in Sudafrica già dal I secolo d.C, o forse anche prima. Si apriva per il Sudafrica un nuovo capitolo storico, che avrebbe posto le basi per il Sudafrica di oggi, etnicamente parlando.
Come reagirono gli "antichi" Khoesān all'arrivo di genti totalmente diverse? Che relazioni ci furono tra i due diversi gruppi etnici?
Questo è decisamente materiale per un prossimo capitolo.

martedì 5 maggio 2020

Sudafrica: le Origini - 2 (il genere Homo)

Cradle of Humankind ("Culla dell'Umanità") è il nome dato a un'area di grotte di pietra calcarea che si estende per ben 474 chilometri quadrati, a una cinquantina di chilometri a nord-ovest di Johannesburg, nel Sudafrica settentrionale. Dal 1999 la Cradle of Humankind è inclusa dall'UNESCO nei suoi Patrimoni dell'Umanità.
Con sempre nuove scoperte archeologiche, quest'area conferma sempre più di meritare l'appellativo di culla dell'umanità.

Nel nostro racconto dal post precedente siamo arrivati a circa 2 milioni di anni fa. In quel momento topico della preistoria dell'umanità, questa particolare regione del mondo fu un luogo per quanto ne sappiamo oggi unico: in un'area di 500 chilometri quadrati (sicuramente era in realtà molto più estesa, ma noi possiamo ricavare i fossili oggi solo dalla pietra calcarea che si trova in quest'area) si trovavano a vivere contemporaneamente diverse specie di ominidi. Almeno sei specie per quanto ne sappiamo oggi, ma è possibile che fossero anche di più. Paranthropus robustusAustralopithecus africanusAustralopithecus sedibaHomo gautengensisHomo habilis, Homo erectus, tutti abitavano questa regione del Sudafrica, alcuni di loro entrando forse in competizione per le risorse del territorio, altri venendo marginalizzati fino a giungere infine all'estinzione.
Le prime tre specie della lista le abbiamo già incontrate nel post precedente, ma le altre tre appartenevano a un nuovo genere, Homo. Tutt'oggi non sappiamo con certezza quando questo nuovo genere di ominidi si evolse, e da chi. Quel che è certo è che 2 milioni di anni fa annoverava già diverse specie, e almeno tre di esse vivevano contemporaneamente nella medesima regione in Sudafrica.
Ma prima di arrivare all'Homo, riprendiamo le altre specie australopitecine da dove le avevamo lasciate.

Immaginate di aggirarvi nella rigogliosa savana alberata del Sudafrica settentrionale nell'autunno australe di esattamente due milioni e ventimila anni fa, cioè nell'anno 2.017.981 avanti Cristo. Su un albero si vede un gruppo di animali scimmieschi, che però non sono scimmie. Sono una tribù di Australopithecus africanus, una delle ultime tribù rimaste di una specie in via di estinzione. Questa antica specie popolava queste zone da quasi un milione di anni, ma da un paio di decine di migliaia d'anni la situazione sta diventando esponenzialmente sempre più difficile. Il motivo di ciò, noi, a distanza di 2.020.000 anni da quel giorno, non sappiamo dirlo, ma possiamo fare ipotesi. La più probabile è che un altro genere di ominidi "infesta" ormai da tempo l'habitat dell'Australopithecus africanus in modo sempre più invasivo. Questo genere oggi lo chiamiamo Homo. In particolare una nuova specie, che vive da queste parti forse solo da qualche decina di migliaia d'anni, è particolarmente aggressiva nell'accaparrarsi le risorse del territorio: l'Homo erectus. E chissà se si tratta solo di quello, o se ci furono veri e propri scontri sanguinari tra le specie in questione, in cui l'Australopithecus africanus alla fine avrebbe avuto la peggio.
Ci allontaniamo di qualche chilometro, e notiamo un altro piccolo gruppo di ominidi ai piedi di un albero, i piccoli intenti a scorrazzare intorno e gli adulti a tenerli d'occhio. Sono ominidi ancora più scimmieschi di quelli che abbiamo appena lasciato: sono della specie Paranthropus robustus. Improvvisamente, un membro adulto del branco comincia a urlare, e in fretta e furia tutti i membri del gruppo si arrampicano velocemente sull'albero. Che è successo? Che poco distante si aggira un grande felino del genere Megantereon, un genere di felini predatori oggi estinti, che tra le loro prede includevano anche gli ominidi.
Ce ne teniamo alla larga e ci allontaniamo ancora una volta di qualche chilometro.
Nella savana umida alberata scorgiamo in lontananza diversi animali qua e là, tra cui grandi erbivori preistorici oggi estinti, come il Makapania broomi (una grossa specie caprina) o qualche gigantesco esemplare del genere Chalichoterium (dell'ordine dei Perissodattili a cui appartengono i moderni cavalli e zebre, ma anche i rinoceronti e i tapiri). E poi, dopo molto vagare, finalmente troviamo altri ominidi, un piccolo gruppetto di maschi che si aggirano per la bassa boscaglia di arbusti. Sono di un'altra specie di australopitechi, Australopithecus sediba, che abbiamo visto nello scorso post. Il loro aspetto esteriore assomiglia a quello dell'Australopithecus africanus, ma dalle moderne ricerche sappiamo che il loro cervello è un po' più avanzato. Probabilmente, nella lotta per la sopravvivenza che sta attraversando in questa epoca l'Australopithecus africanus, anche questa specie forse è una sua temibile concorrente. Ma a un certo punto questi Australopithecus sediba si arrestano di colpo e si atteggiano in posizione di allerta. Il motivo è presto chiaro: a qualche centinaio di metri spuntano dalla boscaglia degli altri esemplari ominidi, ma non sono australopitechi. Si tratta di ominidi di tutt'altro genere: Homo gautengensis.

Fossili di questa specie del genere Homo vennero portati alla luce a più riprese a partire dagli anni '30 del XX secolo, ma solo nel 2010 alcuni di essi vennero analizzati in dettaglio, e venne fuori che appartenevano a una specie Homo diversa da quelle conosciute fino ad allora. Il paleoantropologo che analizzò i fossili, l'australiano Darren Curnoe, battezzò la nuova specie Homo gautengensis (Gauteng è la provincia sudafricana dove sono i siti archeologici della Culla dell'Umanità, in cui erano stati rinvenuti anche questi fossili), e sostenne che, secondo le caratteristiche analizzate, l'Homo gautengensis sarebbe la specie più arcaica del genere Homo.
Li vediamo avanzare, questi esemplari di Homo gautengensis, in direzione del gruppo di cacciatori australopiteci. Si prospetta uno scontro? Mentre avanzano, si può notare che questi Homo gautengensis sono anatomicamente più eretti degli australopitechi, ma alcuni tratti sono ancora scimmieschi: per esempio, hanno grandi denti adatti alla masticazione di vegetali, il che fa di questi ominidi prevalentemente dei consumatori di vegetali più che di carne, una caratteristica che li accomuna agli australopitechi. Ma attenzione, il membro in testa al gruppo ha qualcosa in mano: un sasso scheggiato, che agita con fare minaccioso nei confronti dei cacciatori Australopithecus sediba. Questi ultimi quindi si voltano e danno in ritirata.

Decidiamo di seguire il gruppo di Homo gautengensis, che ora avanza padrone del campo. Questi individui setacciano la zona tra piante e arbusti, raccogliendo bacche e frutti. Poi si fermano per dissotterrare dei tuberi. Dopo un bel po' di tempo e fatica, finalmente riescono a raccogliere tre grossi tuberi, aiutandosi con bastoni e anche pietre.
È in quel momento che sopraggiungono cinque individui di un'altra specie. Sono Homo habilis
I primi ritrovamenti di fossili appartenenti a questa specie vennero scoperti nel 1955 in Tanzania dai famosi paleoantropologi Louis e Mary Leakey. La specie venne denominata habilis dal professore di anatomia sudafricano Raymond Dart (lo stesso che in precedenza aveva dato il nome alla specie Australopithecus africanus), perché a quel tempo si pensava che questa specie fosse la prima ad avere l'abilità di scheggiare pietre da usare come armi per cacciare le prede, o come "utensili" per scuoiarle. In realtà in seguito si è scoperto che già qualche specie di australopiteco aveva queste capacità, per esempio l'Australopithecus africanus, come abbiamo visto nel post precedente.
L'Homo habilis, pur condividendo uno stile di vita in gran parte simile a quello degli australopitechi, aveva sviluppato nel corso di centinaia di migliaia di anni (il tempo minimo che ci volle per il lento evolversi dalle specie di Australopithecus a nuove specie con caratteristiche almeno in parte diverse, accomunate dall'appartenere a un nuovo genere animale, l'Homo) una capacità cranica ben più grande (tra i 600 e i 750 cm cubici) rispetto a quella degli australopiteci (che, anche nei casi più estremi, non superava i 550 cm cubici, mentre mediamente stava tra i 400 e i 500).
Anatomicamente, l'habilis aveva alcune caratteristiche arcaiche, ereditate dagli australopiteci, e altre più evolute (come il cranio più arrotondato e i denti più allungati e stretti, soprattutto i molari e premolari), che verranno trasmesse in eredità agli ominidi successivi. L'accrescimento della massa cerebrale portò senza dubbio dei cambiamenti nell'atteggiamento di questa nuova specie verso l'ambiente in cui viveva. I suoi utensili di pietra scheggiata erano più precisi di quelli usati dalle specie australopitecine, anche contemporanee all'habilis. Molti studiosi ritengono che un cervello più grande portò alla conseguenza che l'Homo habilis aveva un'intelligenza e un'organizzazione sociale più sofisticate dei suoi contemporanei ominidi di altre specie. Di conseguenza, l'habilis si ritagliò probabilmente uno spazio importante nel suo habitat, tra l'Africa orientale e l'Africa meridionale. Anche se, ritengono alcuni studiosi, pare che non fosse un cacciatore di grandi prede, e che utilizzasse le sue pietre scheggiate per strappare la carne dalle carcasse, invece che per difesa o per cacciare. In sostanza, nonostante il cervello più grande, la sua vita non differiva in modo eclatante dagli altri ominidi che 2 milioni di anni fa condividevano il suolo sudafricano. Era solo un ominide più organizzato socialmente, e con strumenti un po' più precisi per strappare la carne.
Questi cinque Homo habilis si fanno avanti in modo aggressivo contro il gruppo di individui di Homo gautengensis. Bisogna pensare che questi due gruppi appartengono al medesimo genere animale, ma a due specie diverse, un po' come al giorno d'oggi lo sono tra loro lo scimpanzè e il bonobo (le due specie geneticamente più vicine al genere Homo).
Gli Homo habilis impugnano tutti pietre scheggiate e le brandiscono con fare minaccioso. Il gruppo di Homo gautengensis si stringe a difesa, il membro che appare come il leader brandisce a sua volta una pietra scheggiata, per qualche secondo lo scontro sembra inevitabile. Il leader degli Homo gautengensis fissa intensamente i nemici, poi qualcosa balena nei suoi occhi. Non si sa cosa, ma di sicuro in quegli occhi è passato qualche pensiero, non è uno sguardo di un qualsiasi animale, è uno sguardo di un essere senziente che può elaborare pensieri in un battito di ciglia. Poi, fa qualche passo indietro, ed è il segnale di ritirata: il suo gruppo se ne va lasciando a terra i tuberi e qualche frutto. Li vediamo allontanarsi e, in distanza, arrampicarsi su un albero.

I cinque individui di Homo habilis raccolgono il bottino lasciato a terra dagli Homo gautengensis e si dirigono verso la loro tribù.
Lungo il percorso però devono stare attenti a non dare nell'occhio, per non cadere vittime a loro volta di eventuali predatori. Quando non manca ormai molto all'arrivo, intravedono a diverse centinaia di metri altri ominidi. Questi ultimi assomigliano agli habilis, ma allo stesso tempo si capisce che non fanno parte della medesima specie: appartengono a una nuova specie, molto recente, l'Homo erectus.
Soltanto nel 2020 una nuova scoperta di fossili nell'area della Culla dell'Umanità ha rivelato che in Sudafrica gli Homo erectus esistevano già 2 milioni di anni fa. Fino a qualche anno fa, scoprendo dei fossili di erectus arcaici (1,9 milioni di anni), li si era classificati come una specie distinta, Homo ergaster (ergaster in greco antico significa "manifattore", vedremo il perché gli fosse stato assegnato questo nome). Oggi si considera Homo ergaster non come una specie a sé, ma come Homo erectus arcaici, per i primi 200 mila anni della loro esistenza. Questa nuova specie si distinse in modo abbastanza evidente dagli altri ominidi suoi contemporanei. Per quanto ne sappiamo, fu con questa specie che avvenne un primo balzo genetico verso "qualcosa di più".
Come la genetica abbia lavorato per produrre certi cambiamenti, questo è (per ora) un mistero, ma anche se esteriormente l'Homo erectus arcaico poteva essere non molto dissimile dalle altre specie del genere Homo, geneticamente stava immagazzinando caratteristiche che lo fecero diventare in tempi incredibilmente rapidi l'essere dominante sul pianeta: secondo alcuni ritrovamenti e teorie, ancora in fase di dibattito tra gli studiosi, alcune popolazioni di Homo erectus avrebbero lasciato l'Africa e colonizzato il continente asiatico già prima di 2 milioni di anni fa. Per questo è stato dato loro il nome erectus, perché sarebbe stata la prima specie in assoluto a coprire distanze continentali sui due piedi. Almeno di future nuove scoperte che smentiscano anche questo.
Il "qualcosa di più" che distingueva gli erectus da tutte le altre specie era dovuto a una capacità cranica superiore. Questi Homo erectus arcaici avevano una capacità cerebrale tra gli 800 e i 900 centimetri cubici, e sarebbe cresciuta ancora nel giro di poche centinaia di migliaia d'anni.
Allo stato attuale non possiamo dire con certezza se gli Homo erectus si evolsero in una particolare regione dell'Africa o in diverse aree, addirittura in Africa e fuori dell'Africa (come sostengono alcuni). Purtroppo sappiamo solo quel poco che pochi fossili ritrovati qua e là possono dirci. Anche se avvengono sempre nuovi ritrovamenti di fossili, la ricerca su epoche così remote non riuscirà forse mai a sapere tutta la verità: è come inoltrarsi in un grande tunnel completamente al buio muniti solo di una piccola torcia da campeggio, che illumina solo un fascio di un metro, possiamo fare luce su un punto ma il resto rimane al buio, e quando muoviamo la luce su un altro punto, il punto precedente torna al buio.
Comunque, tornando a noi, gli Homo erectus, grazie al loro volume cerebrale, compirono un notevole balzo cognitivo rispetto agli altri ominidi. Si discute se l'utilizzo del fuoco fosse già stato conquistato dall'Homo habilis e addirittura dall'Homo gautengensis, e se l'utilizzo di strumenti in pietra fosse addirittura tra le capacità di certi australopitechi. Ma una cosa è certa: l'Homo erectus padroneggiava sicuramente l'uso del fuoco, sfruttando forse inizialmente incendi naturali per impossessarsi della fiamma, e poi in seguito imparando a sviluppare una fiamma dall'erba secca, attraverso lo sfregamento di alcune pietre per esempio. E la sua tecnica di scheggiare le pietre raggiunse un livello decisamente superiore a quello degli altri ominidi, segno che le sue capacità cognitive erano superiori. La tecnica di lavorazione delle pietre attorno ai 2 milioni di anni fa fino a 1 milione e mezzo di anni fa è chiamata Tecnica Olduvaiana (prende il nome dalla Gola di Olduvai in Tanzania, luogo di ritrovamenti di fossili famosi). Si parla di tecnica perché si riconosce nelle pietre ritrovate, che vengono chiamate choppers (che in inglese significa strumenti taglienti), un vero e proprio pattern ricorrente: i choppers venivano scheggiati con tecniche particolari affinché avessero un certo tipo di taglio, diverso a seconda dell'uso che ne veniva fatto. Poteva essere più tagliente o più smussato, tagliente solo su un lato o su entrambi i lati del chopper. Pare comunque che anche gli Homo erectus, come gli altri ominidi, non fossero cacciatori, ma si limitassero a strappare la carne da animali già morti, uccisi dai veri predatori di quell'epoca, gli antenati dei grandi felini di oggi. Gli ominidi anzi, e in questo l'Homo erectus non era diverso, erano essi stessi prede dei grandi predatori dell'epoca, come gli altri animali erbivori: avere dei choppers olduvaiani anche abbastanza affilati (come erano quelli dell'Homo erectus) non era abbastanza per difendersi quando venivi puntato da un Megantereon o da altri simili predatori. Comunque, il padroneggiamento del fuoco e l'utilizzo di choppers olduvaiani possono essere considerati come la prima tecnologia umana: per questo gli erectus arcaici venivano chiamati Homo ergaster, che in greco antico significa "manifattore".
Sono proprio questi erectus arcaici che stanno camminando in fila a qualche centinaio di metri dai cinque Homo habilis. Anche questi erectus sono cinque. Gli habilis cercano di cambiare direzione: hanno notato che ciascun individuo erectus impugna un chopper a doppio taglio. Ma è troppo tardi, gli erectus sono troppo vicini ormai. I due gruppi si fronteggiano, faccia a faccia. Si tratta di due specie diverse appartenenti al genere Homo, per la precisione le due specie animali che, 2 milioni di anni fa, avevano le maggiori capacità cognitive sul pianeta Terra.
Rimangono a fronteggiarsi per parecchi, lunghi minuti. Nessuno osa attaccare, e i membri dei due gruppi grugniscono (non potevano articolare un vero linguaggio perché le loro vertebre cervicali erano disposte in modo più stretto rispetto alle nostre), digrignano i denti, agitano le braccia in modo minaccioso. Gli Homo erectus sono più alti e apparentemente meglio armati, ma sembra che non vogliano arrivare allo scontro fisico, puntano a intimorire gli avversari per farli desistere e costringerli a lasciare il cibo.
Dopo molti minuti, in cui i vari individui si sono a lungo guardati negli occhi, succede qualcosa di straordinario. Il leader degli Homo habilis lentamente si fa avanti, con atteggiamento dimesso, di tregua, allungando grosso modo la metà dei tuberi e frutti che a sua volta aveva rubato al gruppo di Homo gautengensis. A quell'iniziativa, il capogruppo degli Homo erectus si fa avanti anche lui. Cautamente, guardandosi negli occhi a vicenda, i due esemplari di specie "cugine" si dividono le spoglie depredate da un'altra specie "cugina". Gli Homo erectus accettano di ricevere metà dei tuberi e frutti, e si allontanano. Gli Homo habilis si affrettano a raccogliere la metà rimasta, e proseguono per la loro strada.

Questa lunga scena che abbiamo raccontato sarebbe potuta davvero accadere un giorno del maggio dell'anno 2.017.981 a.C. Perché nel Sudafrica di quell'epoca convivevano tutte quelle specie ominidi che abbiamo descritto, una circostanza probabilmente unica nella lunga storia umana. Sarebbe stato un paradiso biologico per tanti antropologi, ecologi e studiosi di oggi, poter osservare una tale varietà di ominidi che interagivano tra loro!

Ma poi il tempo, inesorabile, passò. Gli Australopithecus africanus furono i primi a estinguersi. Dopo poche centinaia di migliaia di anni la medesima triste sorte toccò all'Australopithecus sediba.
L'Homo habilis, dopo circa un milione di anni di esistenza, sarebbe giunto a estinguersi intorno a 1,4 milioni di anni fa. Un milione di anni di esistenza (o forse anche più) per una specie ominide è un traguardo considerevole, quindi può essere che l'Homo habilis si estinse fisiologicamente. Tanto più che, secondo alcune teorie, lo stesso Homo erectus potrebbe essersi evoluto da alcune popolazioni di habilis, quindi i geni dell'Homo habilis non sarebbero andati del tutto estinti (anche se c'è ancora dibattito su questo).
Rimanevano vive altre specie di ominidi, come l'Homo gautengensis e il Paranthropus robustus, ma il vero dominatore ominide rimasto nelle savane e boscaglie sudafricane era sempre p l'Homo erectus, che nel frattempo aveva vissuto un'evoluzione cerebrale fino a superare i 1000 centimetri cubici di capacità cranica.

Dopo oltre mezzo milione di anni dalla scena che abbiamo raccontato sopra, l'Homo erectus aveva ormai raggiunto il dominio del fuoco e un miglioramento delle capacità di lavorare le sue pietre bifacciali, tant'è che a partire da 1,5 milioni di anni fa si assiste a una graduale evoluzione dell'antica tecnica olduvaiana, verso una tecnica sempre più perfezionata, che viene chiamata Tecnica Acheuleana. Queste innovazioni permisero all'Homo erectus probabilmente la lavorazione delle pelli e una dieta più diversificata, che includeva anche carne in modo più considerevole di quanto mai avvenuto prima, potendola ora arrostire sul fuoco.
Nel giro di decine di migliaia di anni, il cibarsi di carne fece incrementare ancor più le capacità cerebrali dell'erectus, e per la prima volta nel mondo degli ominidi questa divenne una specie cacciatrice. Alcuni siti archeologici mostrano segni di cacciagione medio-grande, come bovini e perfino elefanti preistorici. Un tale stile di vita comportò una necessità di organizzazione sociale sempre più avanzata, rispetto agli ominidi precedenti. Che includeva anche il prendersi cura dei membri anziani, dei malati e dei feriti. Insomma, stava prendendo forma l'umanità nel senso che diamo oggi a questo termine. Non che prima i sentimenti nei confronti dei propri amati fossero assenti, anzi: basti vedere oggi che anche tanti mammiferi, e non solo mammiferi, proteggono la prole e i membri del gruppo, e spesso si disperano se un membro amato (come un cucciolo, o il partner) muore. Ma l'Homo erectus organizzò, per così dire, questi sentimenti in una forte società di gruppi di cacciatori e raccoglitori (raccoglitori di frutti e vegetali), che sarebbe rimasta pressoché simile per centinaia di migliaia di anni, fino all'uomo moderno, noi. Si discute se l'Homo erectus riuscisse ad articolare un linguaggio, e si ritiene di no a causa della conformazione della sua laringe e delle vertebre cervicali, conformazione che, come per tutti gli altri ominidi fino ad allora (e anche per gli attuali bonobo e scimpanzè, per esempio), non consentiva un'articolazione di parola. Anche se c'è chi ritiene che, per far fronte a una nuova organizzazione sociale, l'Homo erectus fosse in grado di spiegarsi con un primitivo proto-linguaggio.

Questi passaggi storici, fondamentali nella storia della nostra umanità, non si sa ovviamente in che modo e in che momento avvennero. Noi oggi siamo abituati a ragionare in anni, mentre quando ci riferiamo a quelle epoche remote, lo avrete capito ormai, la vita rimaneva la stessa per centinaia di migliaia di anni, un tempo che per noi, per le nostre attività, non ha nemmeno senso. Non dico che non ci furono momenti epici anche in quelle epoche, basti pensare alle migrazioni dell'Homo erectus in tutta l'Africa e fuori dell'Africa. Ma sono eventi così lontani che non riusciamo a collocarli con precisione, e comunque lo stile di vita rimaneva in sostanza veramente invariato per centinaia di migliaia di anni.

E così passava uniforme il tempo, al ritmo di centinaia di migliaia di anni. Generazioni di ominidi si succedevano, nei loro piccoli e grandi drammi personali e famigliari. Il clima variava, a volte più caldo, a volte più freddo. Tutti avvenimenti che a noi, così distanti nel tempo, non interessano.
Nel frattempo alcune specie si estinguevano, come il Paranthropus robustus, che era l'ultima specie affine agli australopitechi sopravvissuta fino ad allora. Con la scomparsa del Paranthropus robustus, intorno a 1,2 milioni di anni fa, spariva per sempre quel lignaggio australopitecino che esisteva in Africa da ben 3 milioni di anni, un record assoluto nella grande famiglia degli ominidi.
Spariti per sempre gli australopitecini, nuovi mammiferi invece evolsero, carnivori o erbivori, come, intorno a 1 milione di anni fa, i moderni leoni e giraffe. Altri animali invece, come i rinoceronti e i coccodrilli, esistevano già da centinaia di migliaia di anni.

E poi... Poi arrivò la catastrofe, seguita da una nuova rinascita. Recentissimi studi genetici ci hanno fatto scoprire che, forse a causa di lunghi cicli glaciali alternatisi per oltre centomila anni, si verificarono ondate di estinzioni di grandi mammiferi in Eurasia, e anche l'Africa fu colpita da lunghe fasi di forte aridità e carestie. Avvenne più o meno dai 900.000 agli 800.000 anni fa. E siamo giunti alla rivoluzionaria scoperta che anche l'Homo erectus, che forse all'epoca si aggirava attorno ai 100mila individui sparsi tra Africa ed Eurasia, andò vicinissimo all'estinzione: soppravvissero meno di 1300 individui fertili in tutto! Per rendere meglio l'idea, basti pensare che è un numero inferiore a quello dei panda oggi esistenti in natura (e il panda è considerato oggi una specie a rischio d'estinzione). Fu un crollo demografico avvenuto forse nel corso di migliaia o anche di decine di migliaia di anni, ma che sembrava condurre inesorabilmente verso l'estinzione.
Sorte che toccò ad altre specie anche cugine, come, qui in Sudafrica, lo stesso Homo gautengensis, che arrivò a estinguersi proprio in seguito a questo periodo, dopo forse ben quasi due milioni di anni di esistenza (anche se non abbiamo ancora abbastanza fossili di Homo gautengensis per poter stabilire delle date sull'inizio della sua esistenza).
Questa riduzione della popolazione ebbe comunque effetti incredibilmente importanti anche per l'Homo erectus: secondo i paleontologi, quando nell'evoluzione una popolazione viene drasticamente ridotta, tenderebbero ad accumularsi rapidamente (decine di migliaia di anni) cambiamenti genetici che possono portare alla nascita di nuove specie. Nel nostro caso, ciò che avvenne tra 900.000 e 800.000 anni fa fu che le estreme condizioni di sopravvivenza, al limite dell'estinzione, "spinsero" il genoma dell'Homo erectus a trasformarsi, distinguendosi per sempre da quello delle scimmie antropomorfe. Fu proprio in quel periodo infatti che il ramo evolutivo umano si separò da quello delle scimmie antropomorfe più vicine, come i gorilla, gli scimpanzè e i bonobo, che tuttoggi sono le specie geneticamente più vicine alla nostra: il loro corredo genetico è composto di 24 coppie di cromosomi, mentre la nostra specie ha 23 coppie di cromosomi. Sarebbe avvenuto proprio in quel periodo, di estrema difficoltà per la sopravvivenza del genere Homo, l'evento chiave: la fusione di due cromosomi ancestrali che diede origine a quello che è oggi il nostro cromosoma 2. Ciò portò il nostro corredo genetico a 46 cromosomi, mentre quello delle scimmie antropomorfe rimase a 48 cromosomi: anche loro fortunatamente sopravvissero, ma "si persero" questo passaggio fondamentale che avrebbe portato il genere Homo a un balzo evolutivo senza precedenti.

Ben il 98,7% della popolazione di Homo erectus si estinse, ma le sofferenze e la tenacia di quegli appena 1300 individui sopravvissuti portarono all'evoluzione genetica in una nuova specie. Una specie "potenziata" rispetto all'Homo erectus (che pure era già la specie più evoluta sul pianeta ai suoi tempi).
A questa nuova specie è stato dato il nome di Homo heidelbergensis, dal nome del luogo in Germania, Heidelberg, dove vennero ritrovati per la prima volta fossili appartenenti a questa specie.
L'Homo heidelbergensis aveva una capacità cranica più sviluppata dell'Homo erectus, sui 1100-1200 cm cubici in media, e un'altezza media di 1,70 m, quindi anche la sua struttura fisica si avvicinava a quella dell'uomo moderno. Si ritiene inoltre che, a differenza di qualsiasi ominide precedente, riuscisse ad articolare suoni complessi, permettendo quindi una più ampia trasmissione di conoscenze e aprendo la strada alla condivisione del sapere, un altro passaggio fondamentale verso l'uomo moderno.
Quando, terminata la lunga era glaciale, il clima migliorò, questa nuova rivoluzionaria specie cominciò nuovamente ad accrescere di numero, e ricominciò a migrare a lunghe distanze, come aveva già fatto in precedenza l'Homo erectus. Tant'è che si formarono diverse razze o sottospecie di Homo heidelbergensis a seconda delle diverse aree dove andò a vivere, dal sud al nord dell'Africa, all'Europa, all'Asia.

Un fossile di Homo heidelbergensis fu trovato nel 1953 nel Sudafrica occidentale. Si tratta di un cranio, che venne soprannominato "Saldanha man". Non è stato mai datato con precisione, ma si stima che risalga all'incirca a mezzo milione di anni fa.
In diversi siti archeologici sudafricani sono stati ritrovati manufatti molto avanzati, risalenti tra i 500.000 e i 400.000 anni fa. In particolare nel sito di Kathu Pan, nella provincia del Nord Ovest, sono state ritrovate punte di lancia in pietra, le più antiche di questo genere ritrovate finora, risalenti a mezzo milione di anni fa. Questo indica che gli heidelbergensis sudafricani usavano già a quell'epoca lance con punte di pietra, per cacciare quindi animali di grossa taglia, utilizzando tecniche di caccia di gruppo. Oltre a utilizzare il fuoco per difendersi, per tenere pulizia dalla vegetazione secca e per cuocere il cibo, usavano pelli di animali per vestirsi e proteggersi dal freddo, ed erano addirittura già in grado di costruire strutture in legno! (Come dimostra una rivoluzionaria scoperta in Zambia).

L'evoluzione non è mai lineare, e accanto a specie più evolute hanno sempre convissuto, come si è visto, anche specie più arcaiche.
Anche mezzo milione di anni fa, accanto all'evolutissimo Homo heidelbergensis, viveva in Sudafrica una specie molto più primitiva: l'Homo naledi. Naledi significa stella in lingua sotho, e il nome deriva dal nome della caverna in cui sono stati scoperti i fossili, Rising Star Cave. La scoperta dei fossili di questa specie è recente, risale al 2013. Si tratta di resti di ben una quindicina di individui, un caso molto fortunato in paleoantropologia. Eppure, nello studio di questi fossili è venuto fuori che questi ominidi avevano delle caratteristiche molto primitive per l'epoca. Potevano camminare sui due piedi su lunghe distanze, ma a quanto pare erano ancora molto legati alla vita sugli alberi. Erano alti solo un metro e mezzo (altezza simile agli australopitechi) e presentavano caratteristiche miste tra quelle del genere Homo e quelle degli australopitecini. La morfologia del cranio, della mandibola e dei denti è simile a quella delle altre specie Homo, ma le dimensioni del cervello, grande all'incirca come un'arancia, sono comparabili a quelle del genere Australophitecus (tra i 465 e i 610 centimetri cubici); gli arti inferiori hanno una forma molto simile a quella degli Homo sapiens, mentre la conformazione del bacino ricorda quella degli australopiteci; le proporzioni delle dita delle mani sono simili a quelle dell'essere umano moderno, ma le falangi prossimali sono estremamente ricurve, anche in misura maggiore rispetto a qualsiasi australopiteco; la forma delle vertebre è simile a quella delle specie Homo di mezzo milione di anni fa, mentre la cassa toracica si allarga nella parte inferiore come quella dell'Australopithecus afarensis (una specie di australopiteco arcaico dell'Africa orientale).
L'origine di questa specie del genere Homo rimane avvolta dal mistero. Qualcuno ipotizza che fosse una specie Homo arcaica sopravvissuta per diverse centinaia di migliaia di anni, o un incrocio interspecie tra una specie Homo (gautengensis o erectus) e una specie di australopitecini, come per esempio il Paranthropus robustus, che esisteva fino almeno a 1,2 milioni di anni fa (quindi l'incrocio sarebbe avvenuto attorno a quell'epoca, portando poi col tempo alla specie Homo naledi). Ma allo stato attuale non si ha alcuna prova, e i fossili ritrovati risalgono a un'età compresa tra 335.000 e 236.000 anni fa.

Quella fu un'era di assoluta importanza storica per noi moderni umani, perché fu proprio intorno a quell'epoca che alcune popolazioni di Homo heidelbergensis, probabilmente (anche qui, per il momento non si hanno prove), giunsero al termine di un ulteriore progresso evolutivo, durato come minimo un paio di centinaia di migliaia di anni, evolvendosi fino ad assumere le caratteristiche di una nuova specie: l'Homo sapiens.

A questo punto, dopo questa lunga panoramica di quasi due milioni di anni sulle specie Homo che ci hanno preceduti, entrava in campo una specie che in brevissimo tempo si sarebbe presa la scena soppiantando tutti gli altri: la nostra. Ma questo è argomento per un prossimo post.