venerdì 21 ottobre 2016

L'antichità nell'Ovest Veronese: 7) Autunno 350 a.C.

Una tribù celtica sul piede di guerra

Siamo nell'autunno dell’anno 350 a.C. 
È un autunno particolarmente rigido e piovoso. È passato poco più di un secolo dalla nostra ultima corrispondenza, e la situazione è piuttosto cambiata: genti celtiche frequentano e abitano l'area del Garda e il circondario. Sono della tribù dei Cenomani e sono arrivati da qualche decina d’anni, quando una nuova ondata migratoria celtica si è riversata nella Pianura Padana da ovest. Già da secoli popolazioni di origine celtica vivevano nella Pianura Pa
dana centrale e occidentale, ma avevano pochi contatti con i Paleoveneti: i loro scambi commerciali avvenivano principalmente tra i valichi delle Alpi occidentali e la bassa pianura abitata dagli Etruschi. Ma qualche decennio fa, appunto, nuove migrazioni hanno sconvolto la situazione: le nuove popolazioni, spinte da un periodo freddissimo nel nord Europa che ha gelato raccolti e reso più difficile vivere oltre le Alpi, sono arrivate in Italia “affamate” di terra, di benessere, insomma sono arrivate con un’aggressività che la nostra pacifica Pianura Padana non conosceva più da molto tempo. Una tribù, addirittura, circa quarant’anni fa ha invaso il cuore dell’Etruria. Gli Etruschi hanno chiesto aiuto a Roma, che da qualche tempo è la più forte tra le città del Lazio, ma quando l’esercito romano è intervenuto è stato sonoramente battuto, e i celti sono scesi fin giù a Roma, saccheggiandola, salvo poi abbandonarla per tornare verso nord. I Romani li chiamano Galli, perché a detta loro vengono dalla Gallia.

Un abitato celtico di confine
Comunque, in questo periodo turbolento, noi siamo stati fortunati: tra le popolazioni celtiche di recente immigrazione, l'unica tribù che si è spinta fin qui a est è quella dei Cenomani, che è tra le più pacifiche. I Cenomani non hanno attaccato i Veneti (anche perché probabilmente i Veneti li avrebbero sconfitti), hanno semplicemente occupato un’area geografica di confine, stanziandosi in un piccolo abitato su un altura che chiamano Briks (Brescia) e poi popolando i territori circostanti, dal basso lago fin qui nel Veronese. E pensare che, secondo alcuni, i primissimi paleoveneti, quando erano ancora una popolazione povera e di recente immigrazione, vivevano proprio qui tra l’Adige e il Garda, mentre ormai già da secoli questo territorio è zona di confine per i Paleoveneti. Per questo non ci sono stati veri e propri scontri quando alcune genti cenomane sono venute ad abitare qua in zona.

Una famiglia di celti cenomani in buoni rapporti con
le popolazioni paleovenete del luogo
Qua nel Veronese infatti i Cenomani si sono integrati gradualmente, attraverso matrimoni e l’accettazione della cultura veneta preesistente. Va detto che, pur parlando una lingua diversa, gli usi e costumi dei Cenomani non sono poi così diversi da quelli dei Paleoveneti. Un’innovazione molto utile che i celti hanno portato è il carro agricolo: probabilmente i primi paleoveneti a utilizzarlo sono stati proprio quelli delle nostre zone. Una piccola differenza nella “moda” dei due popoli è che mentre gli uomini paleoveneti si radono i capelli, i celti se li lasciano crescere.

Probabilmente proprio in questi anni, grazie proprio all’immigrazione di famiglie cenomane, il territorio bussolenghese conosce nuovamente un popolamento. Ricomincia così a formarsi un sostrato socio-culturale sul nostro territorio, dopo essere stato per secoli territorio di confine probabilmente non abitato stabilmente. Questo nuovo sostrato è una graduale ma intensa integrazione tra la cultura veneta e quella celtica. Ed è proprio questa cultura che troveranno i Romani tra 150 anni, quando arriveranno qui.

giovedì 20 ottobre 2016

L'antichità nell'Ovest Veronese: 6) Anno 485 a.C. (2500 anni fa)

Esattamente 2500 anni fa la Pianura Padana era una tranquilla regione d’Europa in cui vivevano differenti popolazioni ognuna con propri usi e costumi. Come ho già raccontato nei precedenti post, il popolamento della Pianura Padana ha origini antichissime: essendo una regione ampia e pianeggiante, era uno dei primi territori europei attraversati addirittura fin dalle epoche dei primi ominidi provenienti dall’Africa, più di un milione di anni fa, e poi in tutte le epoche successive, da altre specie di ominidi, fino alla nostra specie, l’uomo moderno, che arrivò qui nelle nostre zone almeno a partire da 45.000 anni fa. Durante le epoche glaciali, il livello del Mare Adriatico era molto, molto più basso. La costa non era presso l’attuale Venezia, ma presso l’attuale Ancona o ancora più in giù: da lì in su era tutta pianura abitabile.

Comunque, torniamo a noi. Nell’anno 485 avanti Cristo, cioè esattamente 2500 anni fa, il villaggio preistorico di Bussolengo non esiste più già da molto tempo, pur essendo stato abitato in passato per oltre un migliaio d’anni (anche se con alcuni periodi intermedi di abbandono). Perché, quindi, è stato definitivamente abbandonato e dimenticato? Ho già accennato a una spiegazione nella conclusione dell’ultima corrispondenza, ma vale la pena tornarci su. Fu l’intensificarsi dei commerci e di un certo relativo benessere, già dai primi secoli del I millennio a.C., a rendere ormai inutile rimanere arroccati in piccoli villaggi contadini sulle creste collinari, che non potevano più ospitare comunità via via più grandi e diversificate. Crescevano nuovi villaggi più popolosi, il più vicino era Verona, e la gente preferiva andare a vivere in quei centri dove la vita era più agevole. In epoche lontane la Valpolicella
Dalle ricerche archeologiche (e letterarie) pare che
gli uomini paleoveneti usassero radersi i capelli a zero
era già stata sede di villaggi e di commerci, ma mai prima d’ora era successo uno sviluppo simile. In sostanza, era la fine della preistoria e l’inizio della cosiddetta protostoria, cioè la prima fase della storia, in cui le notizie scritte su un determinato popolo non sono giunte fino a noi da quello stesso popolo, ma comunque notizie scritte su di lui ci sono giunte da altri popoli più o meno a esso contemporanei. Ma cos’è che produsse questi nuovi commerci e benessere mai visti prima, e l’inizio del periodo (proto)storico nelle nostre zone? Beh, sostanzialmente fu l’arrivo di una nuova popolazione proveniente forse dall’Europa centro-orientale: i Veneti, o Paleoveneti. Proprio intorno agli anni in cui è ambientata questa corrispondenza, nasce lo storico greco Erodoto, che sarà il primo a parlare dei Veneti (Enetoi in greco antico) per la prima volta in un’opera storico-etnografica, e non associati a storie mitiche. Di scritte in antico venetico ne sono giunte fino a noi circa 400, frammentarie, soprattutto su oggetti votivi o steli funerarie, ma si è riusciti a tradurre molto poco. Eppure è proprio un’iscrizione in antico venetico che riporta il termine venetkens.

Siamo quindi nel 485 a.C. I Veneti, stanziatisi nella Pianura Padana orientale già da qualche secolo, stanno vivendo la loro epoca più florida. Qui sull’Adige e nella zona del Garda siamo verso i confini dell’area veneta, ma i paesi e villaggi paleoveneti sono benestanti anche qua, perché si trovano sulle vie di transito la cui importanza ormai ben conosciamo (all’incrocio delle direttive est-ovest e nord-sud, presso il lago di Garda, all’imbocco della val d’Adige), e inoltre Verona è ormai un centro paleoveneto di una qualche importanza. I Veneti in fondo hanno ripreso i commerci che già esistevano prima di loro, che fanno della nostra pianura, in quest’epoca, un crocevia importante tra il Mar Baltico del nord e il Mediterraneo (l’antica Grecia è già da secoli culla di commerci e cultura, e sta per entrare, è questione di qualche anno, nella stupenda età classica greca). Le popolazioni che abitavano la regione prima dell’arrivo dei Veneti, cioè gli Euganei e i Reti, sono decadute ma non si sono estinte: popolazioni euganee, ancora in questo anno 485 a.C., si possono trovare in villaggi sui rilievi collinari della Valpolicella, e i Reti hanno semplicemente arretrato i loro territori di predominio sulle Alpi e Prealpi. Il territorio dell'ovest veronese, a questo punto della storia già lo indovinerete, era in passato luogo frequentato sia da genti retiche (i Reti un tempo abitavano stabilmente la Valpolicella), sia euganee (il nome Euganei è stato appioppato loro dai Paleoveneti, ma in realtà gli Euganei altro non erano che le varie popolazioni di pianura, dal Veneto orientale al Garda). Gli Arusnati, poi, erano una popolazione che abitava la Valpolicella, probabilmente di cultura retico/etrusca: le origini di Reti ed Etruschi sono molto più connesse tra loro di ciò che si pensava in passato!
I Paleoveneti erano famosi per i loro bellissimi cavalli

I centri principali paleoveneti (qui da noi Verona, ma centri più importanti sono Este e Padova, a est) sono praticamente città-stato con territori ben definiti e dominati da un’aristocrazia. Se Verona comincia ad assumere le connotazioni di una piccola cittadina, con case dalla base in pietra, è probabilmente merito della civiltà paleoveneta. Qui da noi le aree collinari, come quelle montane, sono organizzate in distretti di tipo “cantonale”, ma ricordiamoci che l’area del Garda rimane anche in quest’epoca un territorio importante e ben sviluppato, anche se di confine.
E il territorio bussolenghese? È abitato nel 485 a.C.? Non abbiamo alcuna prova. La civiltà paleoveneta è una civiltà proto-urbana, cioè che concentra la popolazione principalmente in centri popolosi. Che ci sia qualche abitazione sparsa (o un villaggio) oppure no, questa zona è comunque parte integrante del mondo paleoveneto, con le sue peculiarità che lo distinguono da tutte le altre culture non solo della Pianura Padana, ma di tutta l’Italia protostorica: una società dedita al commercio con popolazioni vicine e lontane, permeata di forti credenze religiose, che produce espressioni artistiche di rilievo, armature e vestiti originali, produzioni bronzee e fittili, agricoltura e allevamenti di bestiame e soprattutto di cavalli, per i quali questo popolo sarà famoso ai tempi degli antichi Romani. La società paleoveneta inoltre è basata sulla parità dei sessi, a differenza della maggior parte delle comunità dell’Italia protostorica, che sono patriarcali.

Va detto inoltre che i Veneti hanno uno scambio di reciproche influenze, non solo commerciali ma anche culturali, con gli Etruschi, che in quest’epoca abitano anche la Pianura Padana: la vicina Mantova era popolata di abitati etruschi, quindi anche nelle nostre zone, oltre alla presenza di Reti, Euganei, Veneti, va sicuramente aggiunta anche la frequentazione etrusca. Per dire quanto siano in comunicazione tra loro questi popoli, basti pensare che le iscrizioni retiche dell’area prealpina e alpina sono dal punto di vista linguistico di derivazione etrusca! L’attrezzo a forma di spiedo ritrovato a Ca’ di Capri (nel 1672), verso il confine sud del territorio comunale di Bussolengo, porta incisa un’iscrizione retica. Ca’ di Capri si trova proprio lungo la direttiva viaria che da Verona conduce al lago di Garda meridionale. Questo ritrovamento conferma che il nostro territorio, nel V secolo a.C., è più che mai luogo di passaggio e crocevia delle principali culture dell’area padana e prealpina.

mercoledì 19 ottobre 2016

L'antichità nell'Ovest Veronese: 5) Il villaggio preistorico di Bussolengo (4000 anni fa)

In questa quinta tappa andremo a visitare il villaggio preistorico di Bussolengo, situato presso l’attuale località Gatto, su quei rilievi collinari detti "Ale" che degradano verso l’Adige a nord-ovest del territorio comunale bussolenghese: sono colline formate dal terreno trasportato dagli antichi ghiacciai, come abbiamo visto nel nostro viaggio precedente. Negli anni ’30 del secolo scorso queste colline vennero tagliate dai lavori di una “grande opera” (come si direbbe oggi) costruita durante il periodo fascista: il Canale Biffis. Durante i lavori, che distrussero la parte centrale del sito archeologico, vennero ritrovati alcuni reperti che vennero recapitati al Museo Civico di Storia Naturale di Verona. Ma il sito rimase abbandonato nel disinteresse generale fino a quando negli anni ’90 finalmente il nucleo operativo di Verona della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto condusse due campagne di scavo, che per la prima volta portarono alla luce almeno ciò che rimaneva dei resti del villaggio.

Prima di catapultarci nel villaggio di località Gatto, dobbiamo però spiegare cosa è successo durante i quasi 150.000 anni trascorsi dopo il nostro ultimo viaggio, quando ci eravamo lasciati alle prese con la glaciazione di Riss. Tra i due post precedenti (quello tra le foreste dell’Homo heidelbergensis e quello della glaciazione ) erano intercorsi ben 350.000 anni: una vastità di tempo che, misurandolo con la nostra storia umana, non riusciamo nemmeno a concepire. Eppure durante quel tempo (per noi infinito) l’evoluzione umana aveva visto pochi cambiamenti: c'era stata un'evoluzione, cognitiva e nel modo di vivere, ma abbastanza modesta.
La cosa più ragguardevole fu, secondo alcune teorie, l'evoluzione dell'Homo heidelbergensis in Homo neanderthalensis.
Gli uomini di Neanderthal, come vengono comunemente chiamati, si evolsero per adattarsi a un'Europa più fredda, come abbiamo visto nel precedente post, ma il loro stile di vita rimase invariato, per quanto ne sappiamo, per decine di migliaia di anni.

Poi, oltre 40.000 anni fa, successe qualcosa di rivoluzionario. Una nuova specie, in diverse ondate, emigrò in Europa: era la nostra specie, l'Homo sapiens. Questa specie portava con sé un'evoluzione cognitiva decisamente superiore a quella dei Neanderthal. Era evidente il solco che separava questa rivoluzionaria specie dagli altri ominidi rimasti nel mondo. Nel corso di poche decine di migliaia d’anni le altre specie di ominidi andavano verso l’estinzione, lentamente ma inesorabilmente. Forse, anche se non ci sono prove a riguardo, il principale motivo fu che la superiorità tecnologica e di organizzazione sociale della nostra specie, e la mancanza di integrazione tra le diverse specie di ominidi, fecero sì che l'Homo sapiens si accaparrasse le principali risorse naturali per la sopravvivenza, marginalizzando le altre specie fino a indurle a estinguersi nel giro di qualche decina di migliaia di anni (che a noi sembra comunque un tempo infinito, basti pensare: esisterà ancora l'uomo tra 10mila o 20mila anni nel futuro?). Essendo specie diverse, di norma un'unione sessuale interspecie dava origine a progenie non fertile. Eppure alcune recenti ricerche sostengono che le attuali popolazioni del sudest asiatico hanno in certe regioni fino al 5-6% di DNA in comune con l'antica specie di Homo denisoviano, mentre alcune popolazioni in Medio Oriente ed Europa avrebbero tra l'1 e il 4% di DNA in comune con gli antichi Neanderthal. Ciò significa che ci furono casi sporadici e "fortunati" in cui delle unioni sessuali tra Sapiens e Neanderthal o Denisoviani diedero origine a figli fertili, ma furono casi rari e isolati.
L’Homo sapiens decine di migliaia di anni fa, mentre direttamente o indirettamente costringeva le altre specie di ominidi alla marginalità dalla scena della Storia, seppe invece adattarsi a tutti i cambiamenti di climi, ambienti e situazioni, e anzi il suo adattamento divenne la sua forza: ora era in grado di dominare e colonizzare l’ambiente circostante, viaggiando ed emigrando in tutti i continenti. Nacquero aggregazioni sociali sempre più organizzate, che già almeno 40.000 anni fa, per esempio, producevano opere di pittura , musica e scultura di grande rilievo. A quell’epoca la Lessinia e la Valpolicella costituivano probabilmente una delle regioni più densamente popolate in Europa: al vecchio sito di Quinzano, che rimaneva abitato, si erano aggiunti altri piccoli centri e villaggi, tra cui quello della Grotta di Fumane era uno dei più fiorenti e oggi è considerato tra i siti preistorici più importanti in Europa. Ovviamente una tale densità abitativa portò con sé confronti sociali tra i villaggi e commercio. Insomma il nostro territorio è stato, nel suo piccolo, una fertile culla di civiltà fin da epoche remotissime.

Per dare un'idea del rapido successo della nostra specie, basti pensare che alla vigilia del neolitico, cioè intorno a 15.000 anni fa, mentre tutte le altre specie di ominidi si erano ormai estinte, si stima che la popolazione umana, diffusasi in tutto il mondo, fosse già tra i 5 e gli 8 milioni. Sorgono sospetti su come mai a una tale espansione della nostra specie corrispose la graduale estinzione di tutti i nostri "cugini" delle altre specie del genere Homo. Ma questo non è il luogo dove occuparsi di ciò. Poi avvenne la “rivoluzione neolitica”: la diffusione dell’allevamento e dell’agricoltura permise la nascita di innumerevoli culture regionali un po’ ovunque, che grazie ai commerci si trasferivano il sapere e le scoperte, anche a lunghe distanze. Fu come un effetto domino che accelerò in modo esponenziale il percorso dell’evoluzione umana. In alcune regioni si formarono società organizzate in modo tale da far nascere vere città, con i loro governanti, e poi veri e propri regni, come in Mesopotamia e in Antico Egitto.
Ma mentre il Vicino Oriente assisteva praticamente al nascere della storia umana, con l’uso della scrittura, guerre, conquiste, opere letterarie e costruzioni faraoniche come le Piramidi (faraoniche proprio nel senso letterale: edificate dai faraoni dell’Antico Egitto!), qui da noi, ancora intorno a 4000 anni fa, si era rimasti con i ritmi di vita della fase finale della preistoria, anche se alcune innovazioni, come l’uso di strumenti in bronzo, giunsero fin qui. Fu in questo periodo che venne a formarsi il villaggio di località Gatto.

Viaggiamo quindi nel tempo fino a esattamente 4000 anni fa: cioè nell’anno 1985 avanti Cristo, quando il nostro villaggio, almeno secondo le ricostruzioni archeologiche, doveva esistere già da un paio di secoli.
Ecco come forse poteva apparire un cacciatore
veronese di quattromila anni fa
A quel tempo tutto il territorio bussolenghese era cosparso di foreste, e sarebbe rimasto tale ancora per molti secoli a venire. Ci ritroviamo quindi in mezzo a una fitta foresta di latifoglie, proprio nel luogo dove oggi c’è il centro della cittadina di Bussolengo. Avanziamo un po’ a caso tra alberi, cespugli e rovi, senza avere una benché minima visuale di dove stiamo andando. Sui rami alti si sentono cinguettare molte specie di uccelli, e ogni tanto si sente qualche rumore tra le frasche, non lontano: qualche animale che, al nostro avanzare, cerca rifugio. Speriamo solo di non imbatterci in qualche cinghiale.

Ma dopo pochi minuti ci troviamo invece a tu per tu con un essere umano! Un cacciatore evidentemente, vestito di un indumento in pelle grezza, con calzari anch’essi in pelle fissati con dei lacci. Ha un piccolo arco a tracolla, e lance dalla punta in selce molto affilata. Anche lui sembra abbastanaza sbalordito, anche perché, nel nostro tentativo di vestirci in modo “preistorico”, indossiamo solo una specie di saio in tela grezza e calzature in cuoio grezzo ma ben cucito a macchina. Chissà che impressione gli faremo e chi si penserà di avere davanti. Dopo qualche minuto di imbarazzo e di tentativi di comunicare a gesti, deve rendersi conto che forse cerchiamo il villaggio, e con aria di forte disappunto, non riuscendo a capirci reciprocamente, ci fa cenno di seguirlo: dobbiamo avere interrotto la sua preziosa mattinata di caccia.

La nostra “guida” prosegue silenziosa e con passo svelto e sicuro, seguendo un sentiero che noi non sapremmo riconoscere. A un certo punto la foresta finisce, ma ci accorgiamo che è perché è stata disboscata: dobbiamo essere vicini. Il sentiero “invisibile” ora diventa poco a poco un viottolo e poi una stradina sempre più grande, che a un certo punto ne incrocia un’altra ancora più battuta: quest’ultima deve essere senz’altro una via percorsa dai commercianti, magari in direzione del Lago di Garda o della Valpolicella, zone densamente popolate all’epoca e luoghi di smistamento di diversi prodotti (come la selce dei Lessini, richiesta anche da regioni lontane fin da tempi antichissimi).

Oltrepassato infine l’ultimo boschetto, rimaniamo a bocca aperta: si tratta di un piccolo villaggio fortificato. Le case (o meglio, capanne in legno, argilla e frasche) sono costruite all’interno di un canalone che dalle colline moreniche degrada verso l’Adige, che scorre qualche decina di metri più in giù e che proprio qui sotto forma un’ampia ansa che genera un comodo guado. Ai bordi del fossato in cui si trova il villaggio è innalzata una resistente palizzata, che lo racchiude dai pericoli esterni. Da qui si sorveglia dall’alto il corso dell’Adige, cioè della principale via di commercio dell’epoca in questa regione. Mentre ci avviciniamo al villaggio, ancora fuori della palizzata, notiamo capre al pascolo, sorvegliate a vista da bambini pastori, e anche qualche appezzamento coltivato: spighe di grano.
Inoltre poco lontano, verso l’attuale Pastrengo, scorgiamo una colonna di fumo, che molto probabilmente si alza da qualche altro villaggio: evidentemente su queste colline c’è una rete di villaggi in comunicazione tra loro, che sfruttano queste zone come postazioni sicure, in vista sull’Adige e situate sul percorso che collega la Valpolicella con il Lago di Garda. Secondo l'archeologo Umberto Tecchiati questi villaggi, trovandosi in una regione di passaggio tra aree culturali diverse, dovevano avere caratteristiche miste appartenenti a diverse tipologie di villaggi preistorici: i villaggi palafitticoli del Garda, quelli fortificati del Trentino, e quelli della bassa pianura (i quali in seguito avrebbero dato vita alla cultura delle terramare). Insomma, già da allora questo territorio cominciava a essere una zona "di cerniera" tra culture regionali confinanti.

Nel frattempo il cacciatore, sempre muto, ci precede facendoci entrare nel villaggio. Gli abitanti, che erano intenti nei loro lavori, come la macellazione di animali e la macinatura di granaglie, si fermano guardando l’arrivo di questi strani individui. Stimiamo che il villaggio, con meno di dieci capanne, abbia alcune decine di abitanti e una buona parte sono bambini o ragazzi. I figli sono numerosi e l’età media degli abitanti ci sembra molto giovane. Probabilmente il passaggio di qualche commerciante estraneo non è una novità, ma dai loro sguardi capiamo che noi siamo percepiti come “strani”: sarà perché siamo condotti al villaggio da un loro membro che ha dovuto interrompere la sua caccia, o per come siamo vestiti: la maggior parte di loro è a torso nudo, o indossa pelle di animale conciata e consumata. L’impressione è quella di un piccolo villaggio abbastanza povero, molto contadino. Inoltre l’odore non è proprio piacevole: ci dev’essere un allevamento di maiali laggiù in fondo. Ma il terreno di calpestio è in terra talmente battuta e compatta da sembrare quasi un pavimento. Questo, ci sembra, garantisce un minimo di pulizia all’interno del villaggio.

Veniamo condotti davanti a una capanna un po’ più grande delle altre, dove un uomo brizzolato e pieno di rughe (che però potrebbe non avere più di 40 anni) ci squadra incuriosito. Il cacciatore gli parla brevemente, in un linguaggio così incomprensibile da non ricordarci nessun appiglio con alcuna lingua, moderna o antica. Il “vecchio” brizzolato, che probabilmente è il capo villaggio, si rivolge a noi e dà subito mostra di saperci fare con il linguaggio mimico e dei segni: evidentemente gli sarà capitato frequentemente di dover parlare con gente venuta da fuori che parla un altro linguaggio. Noi facciamo molta più fatica cercando di spiegare che siamo solo dei viandanti di passaggio, ma alla fine lui sembra capirci. Veniamo così invitati a fermarci a cenare al villaggio, come ospiti di riguardo.

Al centro del villaggio c’è un focolare, che viene acceso e alimentato con rami portati dalla foresta. Sul fuoco viene messa ad arrostire della carne, alcuna cacciata in giornata, altra di maiale dall’allevamento. Il sole è ancora in cielo quando tutti sono già seduti attorno al focolare, accovacciati su panni di pelle messi per terra. Gli sguardi di questa gente, vivaci, attenti, curiosi di ogni nostro minimo movimento, smentiscono ogni stereotipo sulla “ottusità” dell’uomo “primitivo”. Questi uomini, donne e ragazzi non sono affatto primitivi, sembrano molto più svegli e in gamba di tanti umani d’oggi, spesso impalati davanti al computer o alla televisione. La carne è molto buona, si vede che è naturale e senza conservanti! In compenso la verdura, una specie di insalata, mi è sembrata amara, ma almeno so che non è inquinata! Mentre i bambini si allontanano a giocare schiamazzando, diversi adulti (quasi tutti di giovane età) cercano di capire da dove veniamo e dove andiamo… Per fortuna il fatto di esprimerci a gesti ci permette di non inventare strane storie, e così facciamo finta di non essere in grado di spiegarci bene. Probabilmente credono che veniamo da molto lontano, non avendo mai visto tipi così. Per la notte veniamo fatti alloggiare nella capanna del capo villaggio. Solo un telo separa l’angolo del nostro giaciglio dal resto della capanna, abitata dalla sua famiglia, in una promiscuità a cui oggigiorno non siamo più abituati.

Ma la semplicità contadina di quella gente, e le loro attenzioni nei riguardi di ospiti estranei non ci sono sembrate molto diverse da altre simili realtà dei nostri tempi. Il fatto che noi li consideriamo “primitivi” è solo una conseguenza errata della comodità di classificare le epoche, dove quindi le
epoche precedenti all’invenzione della scrittura (o della scrittura come la intendiamo noi) sono state definite preistoria. Quel villaggio sulle Ale di Pol era certamente abitato da una comunità povera e di sussistenza, ma diverse migliaia di anni prima, in altre parti d’Italia e d’Europa, erano già esistite altre comunità che avevano fatto fiorire la cultura, le arti, il commercio, i culti religiosi, e poi magari erano decadute. Quindi già migliaia di anni fa nascevano “civiltà evolute” (addirittura pare che già da almeno 5000 anni prima di Cristo molti popoli europei avessero piena consapevolezza dei fenomeni astronomici!), che poi decadevano e si alternavano con “comunità di sussistenza” (qui un esempio tra tanti). Il fatto che non usassero la scrittura a cui noi siamo abituati (ma magari altre forme di pittografia) non significa che per certi aspetti non pensassero e agissero in modo “moderno” come noi.

Anche quel villaggio “preistorico” bussolenghese nel corso dei secoli vide periodi di popolamento alternati a periodi di decadenza o abbandono. Venne infine abbandonato per sempre soltanto quando le condizioni storiche furono mutate radicalmente, verso la prima metà del primo millennio avanti Cristo: si era allora in piena età del ferro , e la diffusione di quell’importante metallo, soprattutto in un centro già molto attivo com’era Verona (una delle città più antiche d’Italia, già dotata di case in pietra nel primo millennio a.C.), pose fine alle ultime comunità chiuse nel proprio guscio. Villaggi come quello di località Gatto scomparivano perché non aveva più senso arroccarsi in un villaggio fortificato per difendersi da fiere feroci che non esistevano più. Nuove popolazioni venute da fuori, ognuna con una propria cultura, stavano facendo fiorire i commerci come mai prima. Finivano quindi definitivamente gli ultimissimi residui isolati della preistoria.


* I contenuti di questo articolo non sono frutto di fantasia, ma sono elaborati prendendo a riferimento le scoperte archeologiche in seguito agli scavi effettuati dal nucleo operativo di Verona della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto.

martedì 18 ottobre 2016

L'antichità nell'Ovest Veronese: 4) La glaciazione di Riss (150mila anni fa)

Nel nostro peregrinare nella preistoria siamo giunti a 150mila anni fa, in piena glaciazione di Riss . Le grandi glaciazioni che in epoche preistoriche colpirono le nostre zone (come il resto del mondo) furono molte. Ma tra le più recenti, quella che almeno nella nostra regione raggiunse i picchi più duri sembra essere stata proprio la glaciazione di Riss.

Homo neanderthalensis
A quell’epoca si era in pieno paleolitico (secondo le moderne suddivisioni della preistoria). Mentre in Africa, in regioni più calde (che in quel periodo dovevano avere un clima temperato), viveva già la nostra specie, l’Homo sapiens, che in seguito si sarebbe propagata per il mondo dando vita alla nostra storia umana, qui da noi il clima era letteralmente glaciale. C’è chi ritiene che diverse popolazioni di Homo heidelbergensis, che abbiamo incontrato nello scorso viaggio, proprio a causa di glaciazioni come queste si stessero lentamente disperdendo ed estinguendo, mentre altre, riuscendo a sopravvivere, si stessero evolvendo (nel corso di centinaia di migliaia di anni!) dando vita a nuove popolazioni, conosciute come Uomo di Neanderthal, che anche in questi periodi glaciali riuscivano a vivere nella fredda Europa. Pare che l’antichissimo sito preistorico di Quinzano, qui vicino, fosse abitato anche durante la glaciazione di Riss, sicuramente grazie al fatto di trovarsi in una ottima posizione, sulle pendici collinari più basse, esposte al sole durante tutto il giorno. Inoltre è ormai assodato che gli uomini di Neanderthal avevano già l'abilità di cucire vestiti in pelle, e calzari per proteggere anche i piedi dal suolo ghiacciato. Ma va detto che gli ominidi a queste latitudini riuscirono a sopravvivere alle glaciazioni probabilmente solo grazie alla loro capacità di padroneggiare l'uso del fuoco e dei focolari: fu grazie a questa abilità (unici a riuscirci tra tutti gli esseri viventi) che non solo sopravvissero a periodi difficili, ma posero le basi per un’evoluzione che nel giro di poche centinaia di migliaia d’anni (un tempo tutto sommato breve nell’arco dell’evoluzione in natura) sarebbe diventata travolgente, arrivando all’uomo moderno e a noi.

Ma torniamo alla dura realtà della glaciazione di Riss: l’impatto di trovarci immersi in quell’ambiente per noi sarebbe spaventoso. Il territorio dell'ovest veronese non doveva essere molto dissimile dall’attuale Groenlandia! Trovandoci lì in piena estate, sarebbe normale essere accolti da temperature vicine agli zero gradi! Il paesaggio era dominato a ovest da un imponente ghiacciaio, che provenendo dal bacino del Garda arrivava proprio fin qui, fino a occupare tutta la parte occidentale del territorio bussolenghese, per intenderci dove oggi ci sono le colline moreniche del Garda e i loro degradanti pendii verso la pianura. Infatti le colline moreniche altro non sono che terra e sassi trascinati dalle morene del ghiacciaio, cioè dalle lingue di ghiaccio che venivano a “morire” proprio qui dopo aver attraversato gli immensi ghiacciai delle Prealpi. Detto così è un conto, ma trovarsi di fronte a una montagna di ghiaccio enorme fa tutt’altro effetto, è come trovarsi improvvisamente in Antartide!

Se il ghiacciaio arrivava fino alle attuali colline, il resto del territorio era tundra gelata. Delle immense foreste che abbiamo visitato nel nostro viaggio precedente non c’era più nessuna traccia, anzi pare impossibile che in questo stesso luogo potessero essere mai esistite. Questo fu probabilmente il clima più inospitale che il nostro territorio veronese abbia mai visto. Nel periodo estivo, quando la morsa del gelo si allentava un po’, sarebbe stato possibile forse vedere branchi di renne e di mammut che pascolavano la flora tipica della tundra, cioè arbusti, licheni e muschi.

Però fu da quell’ambiente, per quanto inospitale, che nacque l’ambiente attuale che noi abitiamo: il ghiacciaio che occupava il bacino del Garda alla fine delle glaciazioni si sciolse e, grazie alla “diga” delle colline moreniche formate dal terreno spostato dal ghiacciaio, il ghiaccio sciolto invece di scivolare tutto via con i fiumi si accumulò nel bacino, formando il più grande lago d’Italia, il nostro bellissimo Lago di Garda.

L'antichità nell'Ovest Veronese: 3) I primi ominidi (500mila anni fa)

In questo terzo viaggio nella preistoria veronese ci attende un incontro molto importante, quello con i primi ominidi stanziati in queste zone, già intorno al mezzo milione di anni fa: a Quinzano è attestato il più antico sito umano preistorico di tutto il Triveneto, risalente al paleolitico inferiore. È ovvio dedurre che quegli antichissimi abitanti pescassero nell’Adige e che facilmente arrivassero a cacciare anche qui nelle nostre zone, che distano pochissimi chilometri.

Va detto subito che la Pianura Padana, già più di un milione di anni fa, fu uno dei primissimi luoghi di immigrazione degli ominidi dall’Africa all’Europa, come testimoniano sempre nuove scoperte (per esempio il sito di San Lazzaro di Savena, verso Bologna, con resti risalenti appunto a oltre un milione di anni fa). Quindi è del tutto probabile che già in quelle epoche assai remote transitassero ominidi nelle nostre zone, dato che, come ormai è noto, ci troviamo in una posizione geografica di transito e oltretutto da sempre privilegiata per lo stanziamento umano, soprattutto qui, vicino alle colline prealpine, un luogo ottimale e di facile insediamento, preferito alla bassa e piatta pianura che in epoche lontane era meno ospitale e meno sicura, disseminata di foreste selvagge o di paludi, a seconda delle zone e delle epoche.

Quindi abbiamo puntato la lancetta del tempo a mezzo milione di anni fa (cioè 500mila anni fa), sperando di riuscire a scoprire chi erano i primissimi veronesi “residenti”. Abbiamo deciso di recarci vicino al corso dell’Adige e verso i limiti orientali dell’attuale territorio bussolenghese. Questo perché proprio qui c’era un guado sul fiume (come c'è oggigiorno), che si prestava come luogo facile di pesca. L’Adige non era più quel fiume incassato in un canyon che avevamo visto nel nostro precedente viaggio, cinque milioni di anni prima. Durante questo lunghissimo tempo (infinito per noi umani) la Pianura Padana era stata invasa dal mare per centinaia e centinaia di migliaia di anni (non qualche secolo!) e questo aveva portato all’accumulo di sedimenti sul fondale, a cui poi si erano aggiunti i detriti trasportati dai fiumi quando il mare si ritirò: gli antichi canyon vennero sepolti e si formò la Pianura Padana. Il clima si raffreddò notevolmente, e quindi il paesaggio che troviamo stavolta è una vera e propria foresta temperata, ma incolta, selvaggia.
Una foresta temperata selvaggia doveva
probabilmente ricoprire il territorio
collinare veronese mezzo milione di anni fa

Per non rischiare di fare incontri ravvicinati con lupi, cinghiali o, chissà, addirittura orsi preistorici, abbiamo portato una di quelle tende che si possono montare sui rami alti degli alberi, usate dai naturalisti per le loro osservazioni. Ci siamo così appollaiati in alto tra i rami, con una bella visuale su tutta l’ansa dell’Adige. Abbiamo vissuto per parecchi giorni proprio come degli avventurosi naturalisti, facendo di necessità virtù e scoprendo che la “foresta bussolenghese” di 500mila anni fa era ricca di vita: volpi, scoiattoli e una grande varietà di uccelli. Con il binocolo poi abbiamo potuto scorgere in lontananza, dove la foresta si diradava in spazi più aperti, grandi cervi dalle corna enormi.

Homo heidelbergensis
Ma dopo più di una settimana vissuta così, appollaiati per aria anche di notte in attesa di scorgere ominidi, eravamo ormai stanchi e rassegnati ad andarcene, quando proprio all’ultimo giorno li abbiamo visti. È un gruppo di quattro individui nudi, che camminano lungo la riva opposta, provenendo proprio da est, dalle zone di Quinzano. Senz’altro devono essere della specie pre-sapiens chiamata Homo heidelbergensis , protagonista della cosiddetta antichissima "cultura acheuleana" . Visti da lontano non hanno affatto l’aspetto fisico di ominidi primitivi, anzi: questa specie ha il merito di aver compiuto un grande balzo avanti nell’utilizzo di strumenti più elaborati, e anche nell’acquisizione di uno stile di vita praticamente già in tutto simile a quello dei futuri Homo sapiens (la nostra specie), come hanno dimostrato alcune recenti e rivoluzionarie scoperte . I quattro cacciatori portano con sé delle rudimentali lance e una sorta di rozza ma voluminosa bisaccia fatta di pelle di qualche animale. Giunti al guado ci sembra che si scambino qualche indicazione, che non udiamo. Comunque pare che questi siano stati tra le prime specie di ominidi in grado di articolare un linguaggio vero e proprio, anche se molto semplice. Nel frattempo si sono immersi nell’acqua fino ai polpacci e hanno cominciato a pescare, conficcando le lance appuntite tra i flutti: in pochi minuti hanno già preso i primi pesci e in poco più di mezzora riempiono quella specie di bisaccia, escono
dall’acqua e si avviano sulla strada del ritorno. Non era una battuta di caccia grossa, evidentemente, ma una semplice pesca “di routine”. Ma a noi è bastato, per scoprire chi erano i primi abitanti delle nostre zone, mezzo milione di anni fa.

L'antichità nell'Ovest Veronese: 2) Il "Grand Canyon" dell'Adige (5,5 milioni di anni fa)


Dopo la Tetide tropicale di 50 milioni di anni fa, stavolta ci catapultiamo in un passato relativamente meno remoto, anche se comunque parliamo di 5.500.000 anni fa (5,5 milioni): un tempo sempre inimmaginabile se messo a confronto col velocissimo scandire delle generazioni umane. Era l’epoca chiamata Miocene.

Sono passati 45 milioni di anni dalla nostra precedente corrispondenza, e in un lasso di tempo così immenso qualcosa deve pur essere cambiato! In effetti è così: dinanzi a noi abbiamo finalmente le Alpi, innalzatesi lentamente in tutto quel tempo a causa di immani sommovimenti della crosta terrestre. Tutto lo scenario marino ora si è trasformato in terraferma, grazie al fatto che in quest’epoca il Mediterraneo era
un bacino chiuso e quasi del tutto prosciugato, come un’immensa e profonda salina! Qui nelle nostre zone l’antico clima tropicale aveva lasciato spazio a un clima più secco, proprio a causa dell’evaporazione del Mediterraneo.

Ma ciò che ci lascia a bocca aperta è che queste Prealpi non assomigliano per niente a quelle che noi conosciamo: sono montagne alte e aspre, rocciose, brulle, ricordano le montagne di un paesaggio desertico e selvaggio. E degradano gradualmente fino a scendere con gli ultimi declivi proprio nel territorio dell'ovest veronese. E, altra sorpresa, compare per la prima volta il fiume Adige: un Adige preistorico che attraversa queste nostre zone nel solco di una sorta di canyon roccioso.
Per capire meglio com’è possibile, sorvoliamo in elicottero il fiume fino alla zona dell’attuale Garda. Il lago non esisteva, al suo posto passava proprio il corso dell’Adige, che usciva dalle Prealpi attraverso un canyon profondo, che ci fa venire in mente veramente il Grand Canyon del fiume Colorado. Atterrati su un pianoro roccioso, scendiamo a piedi giù per un pendio ripido e scosceso, verso la riva dell’Adige, portandoci dietro un gommone gonfiabile che avevamo a bordo dell’elicottero. Giunti sulla riva notiamo che la corrente è molto veloce e quindi abbiamo la conferma che il primitivo Adige sta scavando le giovani rocce alpine con una potenza considerevole. Il tutto quadra: essendosi abbassato addirittura di parecchie centinaia di metri il livello marino, i fiumi di quell’epoca dovevano percorrere un dislivello molto maggiore di oggi e questo li portava a solcare con molta più incisività il terreno, producendo questi spettacolari canyon. In pratica, il letto roccioso dell’attuale Lago di Garda è stato scavato dalle acque tumultuose di quell’Adige preistorico!
Il bacino del Mediterraneo quasi disseccato, durante il cosiddetto Periodo Messiniano (tra 7 e 5,5 milioni di anni fa)


Decidendo di rischiare, montiamo sul gommone, ci spingiamo nella corrente e facciamo rafting per un po’. Riusciamo con non poca difficoltà a costeggiare la riva, fino a quando notiamo una piccola ansa dove l’acqua è un po’ più calma e sbarchiamo. Decisamente non era il nostro placido Adige di oggi! A un certo punto vediamo un piccolo mammifero simile a una martora
 balzare dentro e fuori dell’acqua. Quindi ci arrampichiamo lungo l’argine del canyon, ora già più basso, e giunti sul pianoro qualche decina di metri più in su rimaniamo desolati: davanti a noi solo una distesa selvaggia di piante basse e arbusti, su un terreno assai poco fertile. Si tratta di specie chiaramente resistenti alla scarsità d'acqua (l’Adige scorre molto più in basso). Animali, pochi: qualche uccello che cinguetta all’ombra, qualche lucertolone steso al sole, incurante della nostra presenza, forse non temendoci perché evidentemente non ha mai visto animali simili a noi (a quel tempo i più ancestrali ominidi, gli ardipitechi, vivevano solo in Africa).

Abbiamo visto abbastanza. Siamo passati da un oceano tropicale nel nostro precedente viaggio, a delle distese degne del Grand Canyon… Tutte queste trasformazioni sono avvenute nelle nostre zone (certo, nel corso di milioni di anni). Non si tratta di un’invenzione, la geologia e la scienza oggi ci confermano che fu proprio così. Chi l’avrebbe mai detto?

L'antichità nell'Ovest Veronese: 1) All'epoca dei fossili di Bolca (50 milioni di anni fa)

Immaginate di essere nella zona occidentale della provincia di Verona, ma di affacciarvi alla finestra e non vedere più i Monti Lessini e il Monte Baldo, né il fiume Adige, né le colline moreniche attorno al Lago di Garda, e neppure le pianure della Valpolicella e della Bassa Veronese, e scoprire di trovarvi invece in un arcipelago in mezzo a un oceano tropicale, scorgendo lì attorno soltanto qualche atollo corallino e, in lontananza, qualche vulcano che si erge da una costa bassa e paludosa: sembra impossibile, eppure questo è l’aspetto che hanno avuto le nostre zone per milioni e milioni di anni, un arco di tempo che non riusciamo nemmeno a concepire in confronto ai tempi della storia o anche della preistoria umana.

Nel corso di queste distese infinite di tempo la Terra ha subìto immani cambiamenti di climi e di ambienti. Oggi si parla di riscaldamento globale, ma la Terra decine e centinaia di milioni di anni fa era molto più calda di oggi e per questo, non esistendo ancora nemmeno le Alpi, il territorio che oggi noi calpestiamo nella Pianura Padana era il fondale di un mare tropicale. Abbiamo quindi deciso di muoverci non nello spazio ma nel tempo, per documentare questo paesaggio che esisteva dove oggi viviamo noi, scegliendo una data tonda: 50 milioni di anni fa. Per intenderci era l’epoca a cui risalgono i fossili di Bolca , l’epoca geologica chiamata Eocene. Per essere chiari, le nostre zone avevano questo aspetto tropicale da ben prima, da centinaia di milioni di anni. Basti pensare alle impronte di dinosauro trovate vicino a Rovereto e impresse nella pietra da ben 200 milioni di anni: a quel tempo la pietra era probabilmente terra melmosa, in un clima e in un ambiente tropicale. Tra l'altro, anche sul Monte Solane, in Valpolicella, sulle prime pendici montane dell'Ovest Veronese, sono stati ritrovati fossili risalenti all'Eocene.

Eccoci quindi catapultati a 50 milioni di anni fa: un clima caldo e umido ci accoglie, sembra di essere all’interno di una serra tropicale. Il mare in cui ci ritroviamo era la famosa Tetide, quell’oceano preistorico che esisteva da epoche immemorabili, ancora prima dei tempi dei dinosauri (fin da oltre 250 milioni di anni fa). 50 milioni di anni fa però i dinosauri erano già estinti da una quindicina di milioni di anni. Quello che non molti sanno è che una piccola stirpe di dinosauri riuscì a sopravvivere all’estinzione di massa, a diversificarsi e a proliferare in seguito: gli uccelli. Infatti, una volta balzati in quel mare di 50 milioni di anni fa, notiamo uno stormo di grossi e strani uccelli a noi sconosciuti (forse oggi evoluti in pellicani?), gracchianti sopra l’atollo e sulle nostre teste.

Eoplatax papilio, uno dei numerosi fossili dei giacimenti di Bolca,
sugli attuali Monti Lessini, fossili perfettamente conservatisi
a distanza di 50 milioni di anni
Dopo aver navigato per un po' in questo antichissimo mare tropicale, lasciamo la barca per attraversare con un piccolo gommone una barriera corallina e addentrarci in una zona semipaludosa: a un certo punto, a pochi metri da noi, scorgiamo il netto profilo di un coccodrillo scivolare sulla superficie dell’acqua. I coccodrilli sono in effetti animali antichi quanto i dinosauri (legati a loro da qualche parentela) e alcune specie sono sopravvissute all’estinzione di massa che spazzò via i grandi rettili. Dopo esserci ripresi dal batticuore, favorito tra l’altro anche dall’aria umida e pesante, proseguiamo addentrandoci col gommone attraverso una lussureggiante vegetazione tropicale, tra grossi insetti (molte libellule) e variformi uccelli. Avvistiamo anche alcune belle tartarughe sulla riva. E poi anche palme molto robuste, che crescevano imponenti e rigogliose.

L’unico peccato è che non abbiamo potuto vedere altri animali che a quell’epoca vivevano sulla terraferma, come i primi grossi mammiferi terrestri e i più antichi primati antropoidi (lontani antenati delle scimmie e anche di noi umani). Ma d’altronde queste zone a quell'epoca non erano certamente il loro habitat, come abbiamo constatato anche personalmente: la nostra intenzione era infatti di scendere dal gommone e provare a raggiungere a piedi le falde di un piccolo vulcano non molto distante. Ma il terreno è talmente instabile, con tratti melmosi e paludosi nascosti ovunque in una vegetazione selvaggia, che abbiamo deciso che si tratta di un tentativo rischioso e impraticabile. Inoltre la respirazione è diventata difficile a causa delle esalazioni vulcaniche disperse nell’aria. Insomma, è proprio il caso di dire che non era ancora un ambiente adatto agli uomini!

Il sole comincia a tramontare tingendo il cielo di rosa, mentre in lontananza all’orizzonte compaiono grigi nuvoloni. Decidiamo così di ritornare alla barca e solcare per un’ultima volta il mare aperto, il nostro mare tropicale. Nostro, perché riflettendoci, tra le rocce di quel fondale marino di 50 milioni di anni fa, in intensa attività magmatica, era già in atto un lentissimo processo che avrebbe portato alla formazione della catena alpina: quel fondale marino era già il suolo dei Monti Lessini e del Monte Baldo che oggi vediamo affacciandoci alla finestra.

venerdì 29 luglio 2016

Da Durban a Maputo on the road

La vista di Maputo dalla riva opposta della baia

È la seconda volta che visito la città di Maputo, capitale mozambicana. Due anni fa ci ero arrivato dalla strada asfaltata che dal confine sudafricano attraversa in tutta la sua lunghezza il piccolo Stato dello Swaziland, prima di entrare in Mozambico, per poi dirigersi verso est fino a Maputo. Questa volta ho deciso di percorrere in auto tutta la costa da Durban a Maputo, attraversando il confine sud del Mozambico, dove confina direttamente con il Sudafrica. L’autostrada che esce da Durban in direzione nord affianca la zona costiera solo per un po’, poi si mantiene nell’entroterra. Lungo la costa ci sono strade secondarie, che attraversano villaggi di vacanza sul mare per ricchi sudafricani. Dopo Ballito, non esiste più una vera strada costiera, solo un’autostrada che attraversa la terra dello Zululand, dove due secoli fa il bellicoso Shaka regnava sul suo impero zulu. Tuttora Shaka è onorato come eroe nella cultura zulu, ma oggi questa regione è costellata di villaggi dove la popolazione zulu, sempre molto orgogliosa, vive di pastorizia e agricoltura, o si reca nelle cittadine vicine o addirittura fino a Durban per lavorare come manodopera. Sono stati costruiti ponti pedonali che scavalcano l’autostrada, perché la popolazione è abituata a passare da un villaggio all’altro a piedi, spesso con le loro mandrie di vacche, e in passato si sono registrati diversi incidenti, povera gente morta investita mentre attraversava una strada che non appartiene al loro mondo. Attraversata la brutta cittadina portuale di Richards Bay (davvero nulla da vedere qui), si raggiunge il famoso iSimangaliso Wetland Park, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. È un parco naturale protetto che si estende su oltre tremila chilometri quadrati, e su 280 km di costa. Qui mi sono fermato per tre notti, in tre località diverse, per poter vedere le diverse aree del parco. Gran parte del parco non è percorribile in
Diversi tipi di coralli a Sondwana Bay
auto perché non ci sono strade. La parte visitabile con relativa facilità è quella meridionale, attorno al lago di Saint Lucia, popolato da ippopotami e coccodrilli (all’interno della riserva è concesso scendere dall’auto solo nelle aree appositamente allestite, e a proprio rischio e pericolo…). Per questo vengono organizzate escursioni in barca, il mezzo migliore per penetrare nel cuore della riserva naturale. Le dune sabbiose che danno sull’oceano, stupende, sono invece il punto di partenza per appassionati di nuoto subacqueo, grazie alle coloratissime barriere coralline, di cui io ho ammirato la parte più vicina alla riva, affiorante con la bassa marea. La foresta costiera del Maputaland, invece, per centinaia di chilometri quadrati è percorribile solo con fuoristrada, su piste di sabbia spesso dissestate e non curate. Fortunatamente ero in compagnia di altri, su un comodo fuoristrada, il che ci ha permesso di attraversare quell’immensa area semidisabitata (tranne qualche piccolo e sperduto villaggio). In ogni caso ci siamo persi perché le piste hanno innumerevoli diramazioni e non ci sono indicazioni. Non è raro inoltre ritrovarsi la strada occupata da una mandria di vacche selvatiche che non hanno alcuna intenzione di liberare il passaggio. Siamo riusciti a uscirne solo a sera inoltrata, dopo aver attraversato una zona abitata da poche case e aver chiesto informazioni su quale pista conduceva al più vicino villaggio di una certa importanza. Per fortuna avevamo una cartina con il nome del villaggio segnato. Le indicazioni della gente del posto per forza di cose erano vaghe: “Andate in quella direzione, tenete sempre le piste sulla destra più che potete, fino a che raggiungerete un ponte sul fiume, poi tenendo quella direzione dopo un po’ raggiungerete la via per il villaggio”…
L’accesso al confine col Mozambico è invece una comoda strada asfaltata. Appena oltrepassato il confine, però, non c’è traccia di strade: lì si viaggia solo e soltanto, ancora una volta, su piste di sabbia. Sono rimasto piuttosto sconcertato nello scoprire che in tutta la parte più meridionale del Mozambico, praticamente fino a Maputo, non solo non esistono strade asfaltate, ma che gran parte delle vie di comunicazione non sono nemmeno sterrate, bensì sono appunto piste per fuoristrada. La ragione è semplice: la popolazione mozambicana, fuori dalla capitale e dalle città, è molto povera. Si muovono a piedi e la loro vita è limitata ai villaggi circostanti. Eppure, dopo aver sostato una notte alla località turistica di mare Ponta do Ouro (bellissimo posto, anche se un po’ isolato, preferisco tuttora Tofo e Inhambane, 650 km più a nord, dove ero stato due anni fa), siamo ripartiti verso Maputo e ho scoperto che qualcosa sta cambiando anche nel povero Mozambico. Beh, non per la popolazione povera del posto, chiaramente. Dopo qualche chilometro infatti il nostro fuoristrada ha potuto finalmente immettersi su una strada sterrata in costruzione: una volta ultimata sarà una vera e propria strada di alta percorrenza che collegherà Maputo col confine meridionale del Mozambico. E chi la sta costruendo? Imprese cinesi! Che impressione vedere lungo la strada operai neri e ingegneri e geometri cinesi che davano indicazioni. E di più: a un certo punto la strada in costruzione passa accanto a una vera e propria struttura industriale cinese, modernissima, anch’essa in costruzione. Insomma, visto da qui sembrerebbe che il futuro dell’Africa sub-sahariana sia stato appaltato alla Cina…
Si arriva su strada sterrata di campagna fino all’estuario su cui, sulla sponda opposta, si affaccia Maputo. Visto da questa sponda, sembra quasi una sorta di povera e dimessa Manhattan che si allunga sulla baia: grattacieli bassi, vecchi e poco appariscenti. Tranne alcuni grattacieli sfavillanti di recentissima costruzione, ovviamente opera dei cinesi. Per attraversare l’ampio fiume l’unico mezzo tuttora è il traghetto con trasporto auto, ma gli stessi cinesi stanno costruendo un modernissimo ponte, che dovrebbe essere terminato già l’anno prossimo.
Maputo è una città caotica, ma la popolazione del Mozambico, anche qui nella capitale, è sorridente e gentile. Soprattutto, nonostante la povertà, ci si sente sicuri. La microcriminalità è quasi inesistente, si dice. L’eredità del passato coloniale portoghese è tuttora presente: nella lingua parlata innanzitutto (il portoghese), e nei palazzi rimasti pressoché intoccati da decenni (addirittura diversi edifici
Per le strade di Maputo
abbandonati e diroccati in pieno centro). Ma la popolazione bianca è molto minoritaria, quasi non si incontra. Inoltre Maputo non è (ancora) una meta turistica: basta fare una passeggiata nel caotico centro per rendersi conto che la città vive a misura dei suoi abitanti, non è ancora attrezzata per un turismo di massa, che qui non sanno cosa sia. Anche la passeggiata del lungomare non è curata e abbellita, è lasciata così com’è da decenni, a uso della gente del posto. La verità è che Maputo si sta riprendendo solo negli ultimi anni, lentamente, dalla situazione di depressione e miseria in seguito alla lunga e cruenta guerra civile terminata nel 1992, che ha cambiato il volto di una città che fino a una trentina d’anni fa era cosmopolita, vivace e all’avanguardia rispetto ad altre città africane. Nella piazza centrale, di fronte alla sede del municipio, nel luogo dove un tempo c’era la statua del governatore generale portoghese del Mozambico, troneggia oggi una statua gigante in bronzo, in stile sovietico devo dire: infatti è stata ideata e costruita in Corea del Nord, e donata appena cinque anni fa a Maputo, in quanto dedicata al leader marxista rivoluzionario Samora Moisés Machel, primo presidente del Mozambico dall’indipendenza dal Portogallo (1975) alla sua morte nel 1986. Questa stranezza è spiegata dal fatto che tuttora il partito di governo in Mozambico è il Frelimo, lo stesso che condusse la rivoluzione contro il colonialismo portoghese, e lo stesso sempre al potere dall’indipendenza a oggi, nonostante ormai negli ultimi anni abbia abbandonato ogni retorica di vecchio stampo socialista per aprirsi al libero mercato.
Sul traghetto che attraversa la baia di Maputo
Appena si esce dalla città, si attraversano villaggi poverissimi. Ne abbiamo attraversato uno col fuoristrada, andando molto lentamente perché la strada che lo attraversava era fatta per muoversi a piedi: gente povera ma serena e felice, che vive e commercia con quello che ha, e sta bene così. Forse saranno le imprese cinesi, sempre più numerose, a portare la capitale del Mozambico al passo coi tempi. Già nei prossimi anni prevedo un divario sempre più estremo tra la gran parte della popolazione, che sopravvive arrangiandosi come può, e i nuovi ricchi prodotti dall’apertura del commercio con la Cina. Già ora ho notato che nelle catene più note di supermercati, di recente apertura, i prezzi sono addirittura più alti che a Durban. Rimane da vedere quanto profondo diventerà il solco tra ricchi e poveri, nel prossimo futuro. Quello che è sicuro è che la Cina sta colonizzando economicamente e anche a livello di infrastrutture questa parte dell’Africa, aprendo scenari geopolitici inediti per questo XXI secolo.
Vorrei concludere con una nota leggera. E' vero che i tratti somatici mozambicani sono di una certa bellezza, ma non è solo quello, è anche un modo di fare sempre pronto al sorriso, un sorriso che parte dagli occhi, sempre vivi e pronti allo scherzo o al flirt. Diversi sguardi femminili mi hanno trasmesso in modo contagioso la gioia di godere di semplici attimi, di semplici sorrisi. Forse è questo il tesoro più prezioso della gente mozambicana. Speriamo che lo conservino a lungo.

lunedì 21 marzo 2016

Viaggio in Grecia


Un mese fa sono riuscito, insieme a mia sorella, a fare una cosa a cui tenevo: andare per la prima volta in Grecia. Pur avendo girato mezza Europa e pur avendo messo piede su quasi tutti i continenti, stranamente non ero mai stato nella vicina Grecia, uno dei luoghi che più mi affascinano quando penso al nostro lontanissimo passato. E' stato un viaggio che mirava a vedere di persona i principali luoghi della mitica antica Grecia. Non la tipica vacanza sulle isole dell'Egeo, ma un tour in auto (noleggiata) da Atene al Peloponneso, per poi tornare dalla Focide e dalla Beozia. Il tutto in una settimana: una sfida contro il tempo, in un certo senso.
Una cosa che mi ha piacevolmente sorpreso è che i principali siti archeologici sono frequentati anche oggi da tanti giovani e giovanissimi, nonostante un'epoca in cui le bellezze del passato sembrano definitivamente dimenticate dalle giovani generazioni. Cosa che evidentemente non è, come ho scoperto.
Pur essendo ancora inverno, l'aria greca aveva già i primi profumi primaverili, e gli alberi erano in fiore ovunque. E nelle giornate di sole c'era già caldo! E' anche vero che per questioni di tempo abbiamo saltato tutto l'interno del Peloponneso, dove sulle cime più alte dell'Arcadia e dell'Acaia si vedeva la neve in lontananza.

Appena arrivati in aeroporto, abbiamo subito preso l'auto a noleggio e siamo partiti per Capo Sunio, dove proprio al tramonto ci ha accolti uno dei siti più scenografici: le rovine del tempio di Poseidone, poste sopra un promontorio da cui si domina una bellissima visione del Mare Egeo. Nonostante le giornate invernali fossero brevi (alle 6 il sole tramontava), arrivati sul luogo abbiamo visto diversi turisti, tutti giovani, e anche delle scolaresche italiane, tra l'altro. Ma il posto meritava: in maniche corte a febbraio, ci siamo subito resi conto che la scelta di questo viaggio era stata azzeccata.
Siamo poi ripartiti direttamente per Atene, dove abbiamo cenato in centro in una buonissima trattoria.

Il giorno dopo è stato dedicato alla visita della capitale ellenica. Che dire? A me la prima impressione che ha dato è stata quella di una città rimasta come da noi erano le città italiane 30-40 anni fa: non tanta illuminazione notturna (tranne che in pieno centro storico pedonale), traffico ancora abbastanza caotico (nonostante dicono che sia migliorato), con parcheggi selvaggi su marciapiedi e ovunque (a proposito, non esistono ancora, fortunatamente, parcheggi a pagamento). Comunque, mi ero aspettato una megalopoli gigante e caotica, invece in fondo non l'ho trovata invivibile, anzi quando la giri un po' ti ci lasci affascinare e affezionare. Lo spirito della gente greca mi è apparso molto orgoglioso e forte, e spesso privo di quell'affabilità smaliziata che cattura il turista con falsi sorrisi e smancerie: la Grecia ha tuttora, anzi oggi più che mai con la resistenza alla "integrazione" europea, uno spirito provinciale e "orientale" (passato bizantino, Chiesa ortodossa), che è molto distante da quello dell'Europa occidentale (per fortuna, viene quasi da dire). Comunque, è sempre straordinario passeggiare nel centro di una città dove puoi osservare i resti di un'eredità del passato di 2500 anni fa ancora lì, davanti ai tuoi occhi. La visita all'Acropoli per me è stata una vera e propria scoperta, perché dai libri non ti puoi fare veramente un'idea del posto. Il Partenone, come anche altri siti archeologici in altre zone della Grecia, è attualmente sottoposto a pesanti restauri con i fondi europei, restauri che includono la costruzione di nuove colonne da posizionare in luogo di quelle antiche, in un tentativo di far sopravvivere le rovine, e con esse il turismo, in un'epoca in cui la Grecia ha disperatamente bisogno dell'entrata economica portata ogni anno dal turismo internazionale (più di un albergatore ci ha confidato che le cose sono messe male e che hanno visto anche un grosso ridursi delle prenotazioni). Poi, una cosa piacevole è che abbiamo potuto visitare l'Acropoli in orario attorno a mezzogiorno e si stava benissimo, mentre in estate dicono che bisogna andarci all'alba per
non morire dal caldo e dall'insolazione (non ci sono particolari aree d'ombra in cima). Grazie a questo clima abbiamo potuto girare il centro a piedi in lungo e in largo senza affaticarci, e farci un'idea della città.

Il giorno dopo siamo partiti diretti verso il Peloponneso. Abbiamo fatto la foto di rito sul canale che taglia lo stretto di Corinto e poi ci siamo recati a visitare le rovine dell'antica Corinto e la fortezza veneziana e ottomana dell'Acrocorinto, arroccata in alto su una collina da cui si gode un panorama mozzafiato. La tappa successiva era uno dei luoghi simbolo della Grecia antica: il teatro dell'antica Epidauro. Tutt'oggi questa struttura funziona a meraviglia, tant'è che ogni estate vengono svolte qui rappresentazioni teatrali, e abbiamo potuto constatare di persona che l'acustica è perfetta: chi parla dall'orchestra (dove stanno gli attori) può essere udito benissimo in qualsiasi parte delle gradinate, conservatesi quasi perfettamente dall'antichità (hanno subito solo un parziale restauro negli anni '50).
La giornata si è conclusa a Nauplia, una bellissima cittadina di mare di aspetto veneziano (testimonianza del dominio della Repubblica di Venezia in Grecia), dove per cena ho assaggiato dell'ottimo pesce fresco.

Ma il Peloponneso è grande, e le strade non sempre ben tenute. Quella successiva è stata una giornata lunga, soprattutto per me che guidavo... Prima tappa le meravigliose rovine dell'antica Micene, che dopo più di tremila anni trasmettono ancora tutta la loro imponenza. Soprattutto la cosiddetta Tomba di Agamennone, un mausoleo miceneo perfettamente conservato che mi ha trasmesso perfino un certo timore.
A mezzogiorno eravamo in viaggio verso sud, passando attraverso la vivace e bella borgata di Argo moderna (ben poche rovine, quasi nulla, rimangono della famosa Argo antica) e poi lungo la costa orientale del Peloponneso, dove mia sorella non ha resistito alla tentazione di fermarsi per bagnarsi i piedi in un mare bellissimo. Sarebbe stato possibile addirittura farsi un bagno, la temperatura ambiente e quella dell'acqua erano perfette, ma non ce n'era il tempo: ci aspettava un lungo viaggio.
Sulla strada verso sud, abbiamo sperimentato le strade secondarie della Grecia, che collegano tra loro i minuscoli paesini isolati dell'interno: poco più che mulattiere, dove per alcuni tratti addirittura non sono asfaltate e ti ritrovi greggi di capre che ti attraversano la strada. Al momento non l'ho presa per nulla bene, temendo di rimanere attardati sulle strade di montagna all'avvicinarsi della sera, ma anche quell'esperienza è stata caratteristica e piacevole in fondo, ci ha mostrato un aspetto della Grecia vera, lontana dai luoghi turistici, come poteva essere la provincia italiana più di mezzo secolo fa.
Finalmente abbiamo raggiunto quel gioiello di Monemvasia, la Malvasia veneziana, il cui nome greco significa "un solo accesso": il paesino è infatti su una penisola collegata alla terraferma soltanto da un ponte artificiale, fin dal medioevo. Oggi il piccolo centro abitato, racchiuso da mura, è costituito in pratica soltanto da strutture turistiche tipiche, tutte in fase di ristrutturazione, grazie ai fondi dell'Unesco (Monemvasia è stata dichiarata patrimonio dell'umanità dall'Unesco). Dopo aver sorseggiato un caffè greco (simile al caffè turco) alla luce del tramonto, siamo ripartiti di gran carriera per la parte più difficile di tutta la vacanza: abbiamo attraversato l'impervia costa meridionale del Peloponneso, tutta curve e senza un solo lampione che potesse illuminare la piccola strada. Abbiamo attraversato nel buio più pesto la selvaggia penisola del Mani. Eravamo anche in riserva di benzina, col terrore di rimanere a piedi in mezzo al nulla, mentre il nostro ostello ci aspettava sulla costa sud-occidentale a Pilo, a moltissimi chilometri. Per fortuna abbiamo trovato un distributore aperto (si, i distributori self service non esistono, almeno in Peloponneso, da quello che abbiamo visto...), e da lì in poi, oltrepassata la penisola di Mani, il peggio era alle spalle. Kalamata era una vivace cittadina di mare, la cui vita per le strade ci ha ricordato che erano soltanto le otto di sera, e non piena notte! Da lì in poi il viaggio è stato più agevole, ma soltanto alle 9.30 di sera siamo riusciti ad arrivare a Pilo.

Il giorno dopo, sotto un bellissimo sole, abbiamo potuto godere della tranquilla bellezza del porto di Pilo, e abbiamo fatto una puntata poco più a sud, a Methoni, dove rimangono le rovine di un'altra fortezza prima veneziana e poi ottomana. Non ho potuto fare a meno di notare che in Grecia anche le fortezze e le strutture di pochi secoli fa sono tutte lasciate andare in rovina (anche una chiesa al centro della fortezza di Methoni, che avrà forse un secolo, era in apparenza semiabbandonata), a differenza che in Italia dove edifici anche di cinquecento-seicento anni fa, o più, sono tuttora mantenuti in ottime condizioni.
Rimpiangendo di non poterci fermare sulla bellissima spiaggetta di Methoni, siamo ripartiti verso nord, verso l'antica Olimpia. Attraversata tutta la costa occidentale del Peloponneso, siamo arrivati a Olimpia giusto in tempo per visitare le rovine prima che il sito chiudesse (l'orario di chiusura invernale era alle tre di pomeriggio). Ne è valsa la pena comunque. Il sito di Olimpia si trova in un luogo veramente bucolico, in mezzo a pini, cipressi e a prati fioriti, con tanto di papaveri pure, veramente sembrava di essere in primavera inoltrata invece che a febbraio! E poi l'effetto di trovarsi in uno dei posti più importanti dell'antichità per oltre un millennio non ha prezzo...
Appena finita la visita ha cominciato a piovigginare. La pioggia è cessata giusto in tempo per fermarci a pranzare nella vicina Pyrgos, una cittadina di provincia con una bella piazza. Poi ha ricominciato a piovere ancora. Poco male, sulla strada verso Patrasso non c'era granché di importante da vedere. Uscendo dalla comoda e larga strada statale, ci siamo inerpicati in macchina fino alla fortezza Chlemoutsi, che era chiusa (eh, erano già le cinque) e poi siamo scesi al sottostante porticciolo di Kyllini, che pare fosse usato come sede di vacanza da parte della corte degli Angioini di Napoli, mentre oggi è un paesino con poche case, con un porto tuttavia molto attivo, da dove partono e arrivano i traghetti per le isole (Zacinto, Cefalonia, Itaca) e per Patrasso. Nel frattempo il tempo peggiorava, stava montando un vero e proprio temporale, così siamo ripartiti, diretti definitivamente a Patrasso. Quando siamo arrivati lì, infuriava una tempesta di vento, e la tentazione era andare direttamente in ostello. Invece il maltempo poi è calato e abbiamo potuto fare una prima passeggiata in centro. L'impressione è stata talmente buona (era sabato sera e le vie pedonali erano affollate di gente, oltretutto perché a Patrasso era ancora periodo di carnevale), che dopo essere andati a parcheggiare e a lasciare le cose in ostello, siamo tornati a cenare in centro e a vivere un po' dell'atmosfera festosa notturna di questa città, la maggiore città del Peloponneso.

La mattina dopo, invece, la città era semisederta ancora alle 8 (d'accordo, era domenica) e ci è riuscito molto difficile trovare un posto dove fare colazione con cappuccino e brioche. Lasciata Patrasso, abbiamo attraversato il moderno ponte che dal 2004 collega il Peloponneso con la costa della Grecia continentale, e in quel modo abbiamo attraversato il golfo di Patrasso, cosa impossibile fino a poco più di una decina d'anni fa. Siamo passati da Nafpaktos, che, non sapevo, era la Lepanto veneziana: era nelle acque lì di fronte che si svolse la famosissima battaglia di Lepanto tra Veneziani e Ottomani (1571), e ignoravo completamente che si trovasse lì, prima di passarci. Poi la strada proseguiva comodamente lungo la costa (a picco sul mare), per molti chilometri, fino a quando ha deviato per inerpicarsi sul fianco di una montagna, ed è così che siamo giunti al scenografico sito archeologico di Delfi. Sede di culto fin da epoca pre-micenea, questo sito ha un che di eccezionale: fu costruito qui in epoche antichissime, alle falde del Monte Parnaso (la cui cima si distingueva da molto lontano perché coperta di neve fresca, caduta la sera precedente), tant'è che guardando su verso le cime sembrava quasi di osservare un paesaggio dolomitico! Il santuario di Delfi pare fosse un altro luogo di importanza fondamentale nella Grecia antica. Come Olimpia lo era per le cerimonie sportive, Delfi lo era come luogo sacro di culto, ma non solo: grazie alla sua importanza, città di tutto il mondo ellenico, comprese le colonie della Magna Grecia, inviavano offerte votive che anno dopo anno cercavano di superarsi sempre di più in ricchezza. Finché la ricchezza qui accumulata fu tale che Delfi divenne anche un centro di potere, così venne creata l'Anfizionia di Delfi, un ente amministrativo autonomo da ogni città greca. In diverse occasioni, con pretesti i più svariati, città greche (Focidesi, Atene, Sparta, e perfino la Macedonia) arrivarono a scatenare guerre con la scusa di tutelare l'intoccabilità di Delfi, ma in realtà tutti miravano a prenderne il controllo. Alla fine fu formata una lega anfizionica che includeva dodici popoli greci, ciascuno avente due voti nel consiglio, in modo che una città non prevalesse sulle altre arrogandosi il prestigio morale, economico e culturale del santuario. Tale prestigio perdurò fino all'epoca romana, fino a quando nel IV secolo, con l'abolizione ufficiale dei riti pagani nell'impero romano, l'imperatore cristiano Teodosio ne decretò la definitiva chiusura.
Lasciato il santuario, e dopo aver pranzato con vista panoramica, siamo andati verso est, a visitare il bellissimo monastero medievale bizantino di Ossios Loukas, un gioiello dell'architettura bizantina. Arrivati per la verità giusto in tempo per ammirare la chiesa centrale, prima che ci chiudessero quasi le porte in faccia...anche qui, orari invernali...
Infine, ormai al tramonto dell'ultimo giorno, ci siamo avviati verso l'ultima parte del viaggio.
Abbiamo attraversato la Beozia tra bei campi collinari coltivati e siamo passati senza fermarci dalla Tebe moderna (un paesotto orribile), dato che della Tebe antica non sono rimaste nemmeno le rovine. Scavalcate le alture del Monte Citerone, siamo ridiscesi nell'Attica, e dopo un'accesa discussione abbiamo deciso di rientrare brevemente ad Atene per un'ultima passeggiata serale prima di andare in aeroporto. Ne è valsa la pena: abbiamo trovato facilmente parcheggio in centro (cosa di cui io dubitavo) nonostante fosse domenica sera e la città fosse piena di gente. Le vie pedonali erano affollate di cittadini della capitale che facevano la loro uscita serale domenicale, e, una settimana dopo la prima visita, Atene già mi sembrava più familiare, tanto da farmi pensare che in fondo non mi dispiacerebbe come città dove viverci. E lassù in alto, l'Acropoli illuminato dalla luna piena coronava nel modo migliore una bellissima vacanza, che ricorderò a lungo.