mercoledì 11 dicembre 2013

Tenerife, l'isola dell'eterna primavera

 
C'era una volta, negli antichi miti greci, un luogo meraviglioso ai confini del mondo: le Isole Fortunate. Su queste isole regnava sempre un clima dolce e la vegetazione era lussureggiante. Le popolazioni vivevano di ciò che dava loro la natura e non si dovevano preoccupare di lavorare la terra. Era un luogo talmente paradisiaco che si pensava ci vivessero dèi ed eroi che conducevano colà un'eterna esistenza felice, e libera da ogni preoccupazione. Ma il mondo antico finì. Le Isole Fortunate vennero dimenticate per molto tempo, insieme ai loro dei ed eroi.
Diversi secoli dopo, gli Europei tornarono a navigare oltre le Colonne d'Ercole. Fu così che riscoprirono le Isole Fortunate, ne sterminarono la popolazione locale e ne presero possesso, come colonie. Da allora i colonizzatori presero a chiamarle Isole Canarie. Il mondo era cambiato, ma le Isole Fortunate, divenute Canarie, no: sono rimaste fino a oggi quel luogo paradisiaco che erano nei tempi antichi.

Ho avuto la fortuna di vivere e lavorare per quattro mesi a Tenerife, la più grande tra le isole Canarie, e quella che presenta la maggiore varietà di ambienti. Quattro mesi sono pochi; eppure, immerso in quell'ambiente così pacifico, il tempo mi sembrava allargarsi, come in un limbo felice. Non c'era fretta, non c'erano orari, tranne quelli dettati dal mio lavoro, tra l'altro bellissimo (suonare nell'orchestra sinfonica locale, una delle migliori europee, all'interno dell'avveniristico Auditorio di Tenerife).

Clima ottimale, ritmi di vita rilassati, natura bellissima, lavoro bellissimo. Tutti gli ingredienti che ci volevano per farmi quattro mesi in pace e serenità, lontano dallo stress dell'Europa continentale.
Dopo quattro anni e mezzo, in questo freddo dicembre, mi piace riprendere il blog ricordando quella bella esperienza.

Santa Cruz de Tenerife, dove vivevo, è capoluogo delle Canarie ed è una normale città spagnola, non particolarmente attrattiva, se non per i rilassanti giardini con piante subtropicali, e per la luce tipica dei tropici, che io all'inizio ho trovato magnificamente abbagliante, così diversa dalla luce delle nostre latitudini. E poi, nonostante sia una città attiva, sede delle attività economiche di Tenerife, mi ha sempre trasmesso un'atmosfera rilassata.

La vera attrattiva dell'isola comunque è l'enorme varietà di ambienti. La costa nord ha una vegetazione lussureggiante in un clima umido, mentre a sud la costa è arida, non piove quasi mai e a stare al sole a lungo rischi un'insolazione. Ma proprio nella parte più meridionale dell'isola sono sorti complessi balneari da turismo di massa, che sfruttano il clima bello tutto l'anno e attirano migliaia di turisti, soprattutto dall'Europa del nord. Ci sono stato poche volte, preferendo piuttosto viaggiare per l'isola.

Il motivo della diversità ambientale deriva dal fatto che al centro dell'isola sta un massiccio vulcanico che si erge fino a 3718 metri d'altezza, e che divide praticamente Tenerife in due parti. Teide si chiama questo vulcano, un nome che significava "inferno" nell'antica lingua dei Guanci, l'originaria popolazione canaria, sterminata dai colonizzatori europei. Chi ci è stato, si rende ben conto del perché lo considerassero la porta dell'inferno. Oltre una certa altezza, tutta la vegetazione sparisce e in lontanaza compare la sagoma a forma di cono della cima. Più ci si avvicina, più il paesaggio diventa veramente marziano, di una bellezza sconvolgente ma anche inquietante, con ampie vallate di lava solidificata, di varie epoche e vari colori. Il clima diventa improvvisamente freddissimo, tant'è che molti turisti, non credendo che ci sia questa gran differenza rispetto ai trenta gradi della costa, finiscono per congelarsi una volta giunti sul Teide! Il Teide è l'unico punto dell'isola dove ogni anno normalmente nevica, anche se solo in inverno. L'aria, sulla cima, è più rarefatta, a causa dell'altitudine. Immaginiamo quale effetto potesse fare sui Guanci un'eruzione di questo "mostro". Anche se non si verificano eruzioni da oltre un secolo a questa parte, il vulcano è tuttora attivo, come dimostrano le "fumarole" che si possono vedere quando ci si reca presso le falde della cima.

Una regione che mi ha affascinato molto è anche la sezione ovest dell'isola. Partendo dalla costa nord, si passa da declivi coltivati e popolati (Icod de los Vinos, dove si conserva un esemplare millenario di "albero del drago" tipico dell'isola), alla frastagliatissima costa nord-occidentale che culmina negli strapiombi de los Gigantes, a picco sul mare. Per proseguire verso sud non c'è altra alternativa che valicare un passo avvolto da umidità e freddo, una sorta di barriera, superata la quale si cambia mondo: si apre il pianoro costiero del sud, con le spiagge turistiche di Las Americas battute dal sole bollente tutto l'anno.

Tenerife non è la tipica isola delle vacanze da spiaggia. Ci sono anche belle spiagge, ma solo al sud. Nel resto dell'isola si possono fare escursioni in montagna (molto diffusa è anche la mountain bike, con tanti appassionati che si lanciano giù dalle pendici del Teide), si può fare surf lungo le coste ventose del nord, si possono vedere edifici storici dell'epoca coloniale (come a La Orotava), si può anche studiare in una vera e propria città universitaria a San Cristóbal de La Laguna, antica capitale coloniale dell'isola, con tanti begli edifici storici, e che ormai forma con la vicina Santa Cruz un'unica conurbazione. Si possono anche degustare gli ottimi vini e il buon pesce della costa nord, oppure assaggiare la buonissima birra Dorada, prodotta a Tenerife. Per non parlare del famoso Carnevale di Tenerife, o delle sfilate in costumi tradizionali accompagnate dalla musica tipica spagnola, che mi hanno divertito molto.

Tenerife, per fare un paragone, è grande meno della metà della sola provincia di Roma, ma ciò che vi ho raccontato è solo una parte delle ricchezze che accoglie.
Eppure, nonostante questi contrasti di vita e d'ambiente, una sola è la qualità dell'isola che emerge su tutte le altre, e che mi è piaciuta di più: la tranquillità, la vita ricca di cose e persone ma isolata dal lontano stress continentale. Insomma, una versione contemporanea delle antiche, mitologiche, Isole Fortunate.

domenica 11 agosto 2013

Pausa estiva

Fino all'autunno mi prenderò una pausa estiva.
A proposito di vacanze: l'Italia merita di essere incoronata come paese perfetto delle vacanze, lo dicono tutti. Ma spesso si mira a paesi esotici lontani, e poco a poco ci si dimentica che (quasi) ogni angolo d'Italia è un concentrato di bellezza e qualità di vita.
Visto che io vivo dalla nascita nei paraggi del Lago di Garda, e che in questo periodo estivo sto lavorando a Peschiera del Garda, vorrei in questa circostanza fare l'"elogio" di questo prezioso angolo del nostro paese. Anche in periodo di crisi, il turismo sul Lago di Garda sta andando piuttosto bene grazie soprattutto ai turisti del nord Europa: da sempre tedeschi, inglesi e oggi tantissimi olandesi sono attratti da questo posto, e molti vi si sono stabiliti comprando case nei dintorni.
Il più grande lago d'Italia ha sempre esercitato una forte attrattiva, fin dai tempi degli antichi Romani, quando Catullo elogiava Sirmione chiamandola "pupilla di tutte le isole e penisole".
Non mi voglio dilungare, ma sono particolarmente orgoglioso di avere le mie radici in questo angolo d'Italia, con la stupenda città di Verona a un passo, il lago, le favolose montagne e le colline moreniche ricche di paesaggi da cartolina, poco conosciuti ma proprio per questo ancora più genuini e da godere; e poi la Valpolicella, terra fertile di vino fin dall'antichità, con testimonianze storiche, archeologiche e artistiche di altissimo valore.
Come diceva Indro Montanelli, noi Italiani siamo talmente abituati a vivere in mezzo alla bellezza, che ci sembra normale, ci nutriamo della bellezza come fosse latte, quotidianamente. A volte vale la pena viaggiare all'estero per gradire di più, una volta rientrati in Italia, ciò che abbiamo qui, e ritenerci fortunati di essere nati in questa penisola, tra tutti i posti del mondo in cui potevamo capitare.
Quindi, a chi non può andare in vacanza (come me) auguro di godersi di più i circondari o le vicinanze di dove vive, e a chi invece sta progettando le vacanze, li invito a riscoprire alcuni angoli del nostro Belpaese, tra i tanti che offre.
Buone vacanze!

venerdì 26 luglio 2013

Il grande cuore dei Brasiliani

In questi giorni la visita di papa Francesco in Brasile, e la reazione piena di entusiasmo e affetto dei Brasiliani, mi ha riportato alla mente ciò che ho vissuto sette anni fa durante una tournee in Brasile.
A San Paolo, e ancor più a Ribeirão Preto, città agricola dell'interno, mi sorprese la spontaneità dei comportamenti dei Brasiliani: un entusiasmo riposto in ogni momento durante le relazioni interpersonali, anche con persone (come me) che non si conoscono. Non è quindi un semplice cliché quando si parla del grande cuore dei Brasiliani.

San Paolo grande metropoli, d'accordo, ma a me è rimasta nel cuore Ribeirão Preto, città del Brasile profondo, in mezzo a centinaia di chilometri quadrati di latifondi coltivati, e ricca di frutta tropicale. La popolazione scoppiava di salute, sia fisicamente sia come umore, probabilmente proprio per il loro stile di vita a contatto con la natura. Non vi dico poi, agli occhi di noi giovinastri italiani, che impressione ha fatto la scultorea bellezza di quelle donne della provincia brasiliana, che appunto sprizzavano salute da tutti i pori!

Sto rivivendo quelle emozioni in questi giorni, e spero di tornare presto in Brasile.
Speriamo anche che pure tra noi Italiani ritorni quell'entusiasmo e quell'allegria che ci contraddistingueva agli occhi del resto del mondo e che, ahimè, stiamo perdendo... Magari, facciamoci un viaggio in Brasile per riscoprire come si fa!

mercoledì 3 luglio 2013

Egitto in stato confusionale

L'11 febbraio 2011, giorno delle dimissioni del "faraone" Muhammad Hosni Sayyid Ibrahim Mubarak da presidente dell'Egitto, travolto dall'onda della "primavera araba", ero a Ramallah. Poiché era un venerdì, giorno festivo per i musulmani, era il mio giorno di lavoro part-time e quindi rientrai a casa prima, nel pomeriggio. Ero da solo, e per rilassarmi mi distesi sul divano e accesi la TV sul canale di Al-Jazeera International, che stava trasmettendo in diretta le proteste di Piazza Tahrir al Cairo. Una folla enorme, accampata da giorni in quella piazza-simbolo, continuava a richiedere a gran voce che il rais a capo dell'Egitto da trent'anni lasciasse il potere. Verso le sei di sera, lo storico annuncio. A quel punto successe qualcosa di incredibile, anche a vederlo per televisione: un fiume, una marea umana si riversò per tutta la città del Cairo, un senso di gioia incontenibile si diffuse tra centinaia di migliaia di persone radunate tutte assieme. I corrispondenti di Al-Jazeera raccoglievano testimonianze a caso di persone tra la folla, traducendole in inglese: la gente piangeva, rideva, tentava di spiegare a se stessa che quello era il giorno più importante per la libertà degli Egiziani, e che finalmente in Egitto la popolazione era giunta alla consapevolezza dei suoi diritti e della sua intelligenza (si, intelligenza), fino a diventare tanto forte da costringere un dittatore ad andarsene. Ascoltando quelle testimonianze in diretta, mi sentii improvvisamente partecipe di un sentimento spontaneo, una gioia commossa pervasa di solidarietà che percepivo invadere tutta Piazza Tahrir e che contagiava anche gli stessi giornalisti di Al-Jazeera. Eravamo testimoni di un momento storico: un intero popolo si riappropriava, avendolo fortemente voluto, del diritto forse più fondamentale, la libertà. Davanti ai volti e alle parole delle persone in Piazza Tahrir, quella sera mi commossi fino alle lacrime.

Oggi, con la destituzione del presidente Morsi da parte dell'esercito, sembrerebbe di rivivere quei giorni. Ma il contesto è completamente diverso. Mohamed Morsi è stato il primo presidente eletto democraticamente nella storia dell'Egitto, nelle elezioni di appena un anno fa. Elezioni che si svolsero correttamente e senza brogli, tant'è che Morsi vinse con appena il 51% dei voti, contro il 48% di Ahmed Shafiq, che era stato nominato primo ministro da Mubarak. Qual è dunque il vero motivo per cui una parte dell'establishment egiziano ha fatto pressione per scatenare l'indignazione popolare e costringerlo alle dimissioni? Davvero il motivo scatenante è il decreto presidenziale con cui Morsi, nel novembre scorso, si attribuiva ampi poteri nel campo giudiziario? Decreto che avrebbe richiesto anche un nuovo processo da intentare agli imputati dell'era Mubarak che si sono macchiati dell'uccisione di manifestanti e che erano stati assolti, oltre ad altre misure volte a togliere i vari intoppi che stavano frenando il cambiamento, in primis riguardo i lavori dell'assemblea costituente incaricata di redigere una nuova costituzione. Ma in ogni caso, in seguito alle forti proteste che lo accusavano di volere il potere assoluto, Morsi in dicembre ritirò il decreto.
Quindi, qual è il motivo per cui le proteste, invece che placarsi, si sono ingigantite? La società egiziana contiene molte anime diverse, che probabilmente sono state tutte accomunate dalla paura di una nuova dittatura dopo il famigerato decreto di novembre, poi ritirato. Morsi con quel decreto voleva forse solo garantire un cammino spedito delle riforme, che già si stavano arenando a causa delle resistenze passive dei settori della società che avevano vissuto bene con Mubarak. Questa volontà riformatrice ha finito per dare un'immagine opposta, per far apparire Morsi come uno che mirava ad assicurarsi più ampi poteri, forse anche a causa del fatto che proveniva dal partito tradizionalmente conservatore dei Fratelli Musulmani. Almeno questa è la mia interpretazione.
Ciò che comunque preoccupa, è che la stessa variegata folla che fino a poche settimane fa insultava gli elicotteri militari di ronda sulla piazza, oggi, in maniera del tutto surreale, la stessa folla grida, canta e balla inneggiando a quegli stessi militari, dopo che essi hanno dichiarato l'ultimatum a Morsi. Basta così poco per cambiare gli umori di una così immensa folla? E in un Paese acculturato e istruito come l'Egitto?
Evidentemente, in periodi di disordine politico e di incertezze, la demagogia rischia di fare più presa sulla gente. Dovremmo forse tenerlo presente anche noi in Italia.
Ora rimane l'incognita: cosa ha intenzione di fare l'esercito una volta destituito Morsi? E se si trattasse di un colpo di stato bello e buono?
Speriamo che il popolo egiziano non si debba pentire della sua foga di protesta...

mercoledì 26 giugno 2013

Gerico, la fragrante


Una volta, quando lavoravo in Palestina, io e tre colleghi (un amico e due amiche) fummo invitati a passare il weekend a casa di un altro collega. Quando arrivammo, però, ci disse che per evitare problemi col suo padrone di casa avremmo dovuto fingere di essere due coppie sposate! I proprietari della casa erano infatti musulmani molto osservanti e non giudicavano bene che giovani maschi e femmine dormissero sotto lo stesso tetto se non erano sposati! Ne avemmo conferma quella sera stessa, quando il padrone di casa, parlandoci amabilmente ma con piglio deciso di capofamiglia, sotto gli sguardi compiaciuti della moglie e delle figlie, ci fece i complimenti convinto di avere davanti due coppie di sposini (pur se noi, increduli e divertiti al tempo stesso, non davamo molto adito a farlo credere...), e insisteva sul tasto che avrebbe voluto dare in sposa una delle sue figlie al nostro (malcapitato) collega, il quale, abituato da settimane a quelle singolari avances "per conto terzi", si schermiva non senza imbarazzo... Se ne sarebbe "scappato" dopo pochi mesi! Questo avveniva appena un paio d'anni fa nella mitica Jericho, Yeriho in ebreo, Ariha in arabo, o Gerico in italiano.
Gerico, la città più antica del mondo, la prima città della Terra Promessa conquistata dagli Ebrei, quando le sue famose mura crollarono agli squilli di tromba (secondo la tradizione biblica) delle schiere ebree guidate da Giosuè, successore di Mosè, più di tremila anni fa. Oggi fa parte della Palestina, è una delle aree lasciate ai Palestinesi in totale indipendenza, secondo gli Accordi di Oslo del 1993. Tre anni fa, cogliendo come occasione la data 10/10/10, l'Autorità Nazionale Palestinese celebrò i diecimila anni di vita della cittadina, ritenuta il più antico insediamento umano continuativamente abitato fino a oggi. Probabilmente è davvero così, perché dagli scavi archeologici in zona sono emerse tracce di insediamenti risalenti addirittura a quasi 20 mila anni fa, e a tutte le epoche successive. Sicuramente questo fu uno dei primi luoghi dove gli uomini preistorici abbandonarono la vita di cacciatori nomadi per radicarsi qui, in questa fertilissima oasi ricca d'acqua.

Gerico, più che una vera e propria città, in realtà anche oggi è un insieme di borgate rurali immerse in una vasta oasi, e io ci sono andato diverse volte con molto piacere, specialmente d'inverno, perché venivo accolto da un'aria calda e pregna di profumi, e da un'atmosfera rilassata, dove tutti vivono con la serafica tranquillità tipica dei posti caldi. Ho scoperto poi che proprio l'aria profumata è all'origine del suo antico nome cananaico, Ruha: significava "fragrante", lo stesso significato che ha la parola araba Ariha, il nome palestinese di Gerico. Anche il nome ebreo, Yeriho, deriva chiaramente da quella parola. Insomma, Gerico la fragrante.
La sua fortuna è proprio la presenza, in mezzo a una zona desertica, di una fertile vallata cosparsa di oasi fin dall'antichità, una vallata che si trova in una depressione di oltre 200 metri sotto il livello del mare, il che fa di Gerico il più basso sito permanentemente abitato della Terra. Questo influisce anche sul suo clima, che rimane tiepido anche d'inverno, mentre d'estate, durante il giorno, si aggira costantemente intorno ai 40 gradi... Le precipitazioni sono rare, ma l'acqua non manca grazie appunto alle oasi, sfruttate da un'agricoltura rurale molto produttiva.
La vegetazione e l'ottimo clima (soprattutto in inverno) erano ben noti da sempre: nella Bibbia, Gerico viene
Mosaici tra le rovine dell'Hisham Palace
citata p
iù volte con l'appellativo di "città delle palme" e ricchi governanti come il famoso re Erode, o come i califfi musulmani omayyadi, successori di Maometto, vi fecero costruire i loro sontuosi palazzi, le cui rovine sono tuttora visitabili (interessanti i reperti del palazzo degli omayyadi, detto Hisham Palace). 
La zona attorno a Gerico, come ogni luogo in Israele e Palestina, è cosparsa anche di siti religiosi e testimonianze risalenti alle tradizioni bibliche ed evangeliche.
Sin dal quinto secolo gli eremiti si ritiravano nelle grotte del deserto montagnoso circostante, e successivamente in quegli stessi luoghi, in epoca bizantina, sorsero chiese e monasteri, identificando questo e quel luogo come posti in cui erano avvenuti fatti importanti. Per esempio, fu così che il monte roccioso prospiciente Gerico fu identificato come il Monte delle Tentazioni, dove Gesù venne tentato dal diavolo durante quaranta giorni di solitudine e digiuno. Sul fianco di quel monte, letteralmente abbarbicato alla roccia, sorge dal 1895 il monastero greco-ortodosso della Tentazione, edificato su precedenti costruzioni bizantine e crociate (proprio così, dell'epoca delle crociate). Il monastero è incollato su uno strapiombo di roccia, ma oggi è possibile arrivarci anche con una moderna funivia. Nei dintorni, su rovine di epoca bizantina, sorgono altri monasteri e chiese, di fede greco-ortodossa, russo-ortodossa, copta, etiopica, siriana, rumeno-ortodossa. Poco a nord di Gerico si sono trovati anche i resti di un'antica sinagoga ebraica. Una decina di chilometri a sud, invece, c'è Nabi Musa, il più importante sito religioso musulmano nella zona, dove secondo i musulmani (solo secondo loro) sarebbe sepolto Mosè, che dai musulmani è considerato uno dei profeti dell'islam, la cui rivelazione originale però andò perduta.
Vi è venuto mal di testa? Anche a me!
Questo è solo un assaggio per farvi capire quale crogiolo di culture si è stratificato in quella regione nel corso dei secoli. Per non parlare di Gerusalemme, dove questo "melting pot storico" è moltiplicato all'ennesima potenza. Ma di Gerusalemme magari parlerò un'altra volta.
Eppure gli abitanti di Gerico proseguono la loro vita tranquilla, tra la preghiera alla moschea, la coltivazione dei campi e la vendita dei prodotti agricoli, e anche il dolce far niente. Molti di loro, presi da una routine millenaria di vita contadina, magari non sono consapevoli fino in fondo della unicità del luogo in cui vivono. Oppure lo sono e lo giudicano normale.

Purtroppo, per oltre mezzo secolo l'instabilità politica e la tensione con Israele si è fatta sentire anche qui, in questo luogo ameno e isolato, lontano dai centri di potere. In seguito alla sconfitta araba nella guerra del 1948 contro il neonato Stato di Israele, Gerico visse sotto l'amministrazione della Giordania e divenne rifugio di migliaia di profughi palestinesi della Nakbah. Nel 1967, dopo la "guerra dei sei giorni", anche Gerico venne occupata da Israele, come tutta la Cisgiordania.
Negli ultimi vent'anni la lenta storia plurimillenaria di Gerico ha subito un'accelerazione improvvisa. Nel 1994 fu la prima città palestinese a passare sotto il diretto controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese, in seguito agli Accordi di Oslo. Nel 1998 l'ANP, in un ardito piano per far girare soldi nella nascente economia palestinese, si accordò con un ricco ebreo austriaco per costruire addirittura un casinò a Gerico, che potesse attirare i giocatori d'azzardo israeliani, dal momento che in Israele il gioco d'azzardo è illegale. Tra l'altro, vicino a Gerico si trova il Mar Morto, meta di villeggiatura privilegiata dagli israeliani. Anche la fede musulmana condanna il gioco d'azzardo, ma l'ANP decise di correre il rischio pur in una cittadina molto "all'antica" (è il caso di dirlo, eheheh!) come Gerico. Da notare che il presidente dell'ANP a quel tempo era ancora lo storico leader palestinese Yasser Arafat, quindi tutto questo progetto era ancora di più da considerarsi eccezionale. Effettivamente il progetto funzionò per un paio d'anni: molti israeliani (quasi tremila al giorno) venivano a Gerico per giocare al casinò. Ma lo scoppio della seconda intifada determinò la chiusura del casinò e nessun civile israeliano da allora ha messo più piede a Gerico (ufficialmente, almeno). Durante la seconda intifada, le truppe israeliane occuparono di nuovo tutta la zona e scavarono una trincea profonda due metri attorno alla cittadina, per controllare il traffico di chi entrava e chi usciva. Tornata sotto il controllo palestinese nel 2005, vige tuttora la legge degli Accordi di Oslo di vent'anni fa: cioè, Gerico fa parte delle zone sotto diretta amministrazione palestinese (zona A), in cui i civili israeliani non possono più entrare, ma tutta l'area circostante, che divide Gerico dalle altre città palestinesi, appartiene alla "zona C", cioè a quella vasta area della Cisgiordania sotto pieno controllo militare israeliano. In sostanza, i palestinesi possono oggi tranquillamente viaggiare da Gerico a Ramallah o a Betlemme (il problema di andare a Gerusalemme, invece, l'ho spiegato in un precedente post), ma se a metà strada venissero bloccati da una pattuglia israeliana sarebbero costretti a fermarsi, perché lì il controllo del territorio spetta tutt'oggi all'esercito israeliano, come del resto avviene in tutte le zone interposte tra le principali città palestinesi. Un evento eclatante che spiega bene la situazione avvenne sette anni fa, quando l'esercito israeliano fece un assedio in grande stile al carcere di Gerico per prelevare con la forza alcuni prigionieri palestinesi accusati di essere terroristi della seconda intifada (il governo palestinese di allora, capeggiato da Hamas, aveva promesso la loro liberazione). Il carcere di Gerico fa parte a tutti gli effetti della zona A, sotto diretto controllo palestinese, e questa irruzione fu condannata da più parti, non solo dai Palestinesi. Ma ciò non impedì a Israele di prelevare i prigionieri, che ora sono custoditi in un carcere israeliano. Oggi la situazione è cambiata: il rafforzarsi di un governo palestinese moderato, che di fatto collabora almeno in parte con Israele, fa sì che un evento simile non si potrebbe ripetere. Ma la situazione in quella regione è sempre sull'orlo dell'instabilità e non si può mai dire cosa succederà l'anno prossimo o tra un paio d'anni.
Per intanto, il governo palestinese sta cercando di far nascere un turismo internazionale a Gerico, e i dati degli ultimi tre anni sono confortanti. Decine di migliaia di turisti all'anno (molti asiatici e russi) arrivano per vedere il sito archeologico della città antica, o l'Hisham Palace, di passaggio verso il Mar Morto (di cui magari parlerò in un capitolo a parte una prossima volta).
Un'altra attrazione turistica di Gerico è il sicomoro, l'albero su cui, secondo i Vangeli, salì Zaccheo per vedere meglio Gesù attorniato dalla folla. Il grande albero sorge su un terreno di dieci ettari in centro città, terreno che nell'Ottocento venne comprato da un monaco russo (forse perché vi si trovavano i resti di una chiesa bizantina) e poi passato alla Società Imperiale Ortodossa di Palestina, incaricata dallo stesso governo russo di tutelare gli interessi della Chiesa ortodossa russa in Terra Santa. Due anni fa su quel terreno è stato inaugurato un nuovissimo museo russo (non sono mai riuscito a capire che reperti museali contenga, in realtà...) e all'inaugurazione era presente lo stesso presidente russo Medvedev, accanto al presidente palestinese Abu Mazen. Il grande sicomoro di Zaccheo è stato recentemente recintato all'interno del nuovo parco del museo, anche se è tuttora ben visibile dalla strada. L'"appropriazione" non è stata gradita dai greci ortodossi di una chiesa vicina, che sostengono che il vero sicomoro di Zaccheo si trova in realtà nel giardino della loro chiesa. D'altra parte, i botanici israeliani insistono nel sostenere che ogni diatriba è inutile, in quanto non è possibile stabilire l'età di un sicomoro perché il suo tronco non ha cerchi.

Come vedete, Gerico è uno scrigno che contiene tante storie diverse, come ogni altro luogo in Terra Santa. Speriamo che, lasciati alle spalle gli anni della guerra e di progetti improbabili come il casinò, e sperando in turismo rispettoso, gli abitanti di Gerico "la fragrante" possano tornare alla loro millenaria tranquilla vita quotidiana, tra campi, allevamenti, preghiere e "dolce far niente".

sabato 15 giugno 2013

1984 e la "democrazia protetta"


George Orwell prevedeva qualcosa di simile già più di mezzo secolo fa nel suo romanzo visionario 1984.
Si sa che i governi possono avere accesso ai tabulati telefonici e ad altre informazioni private dei propri cittadini, nelle circostanze previste dalla legge, in genere quando lo richiedano indagini su certi crimini o questioni di sicurezza nazionale.
Eppure fa un certo effetto venire a sapere che un giovane ex informatico della CIA, tale Edward Joseph Snowden, ha denunciato alla stampa che l'Agenzia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti (NSA) da anni "spia" le informazioni digitalizzate riguardanti privati cittadini in tutto il mondo, quindi anche noi Europei, attraverso un programma denominato PRISM. E lo ha dichiarato dopo essere volato a Hong Kong, Cina, per evitare un sicuro arresto da parte delle autorità americane. E forse lascia ancora più pensare il fatto che l'amministrazione USA ha reagito malissimo alle esternazioni di Snowden. Lo stesso ministro della Giustizia, Eric Himpton Holder, ha dichiarato in conferenza stampa: "È stata aperta un'inchiesta su questo caso e posso assicurare che fermeremo il responsabile e lo consegneremo alla giustizia. La sicurezza nazionale degli Stati Uniti è stata danneggiata da queste rivelazioni. La sicurezza degli americani e quella delle altre nazioni alleate è ora a rischio".
Inquietanti sono poi le dichiarazioni rilasciate in un'intervista esclusiva alla CNN dall'ex spia Christopher John Boyce (che scontò 25 anni di carcere per aver venduto alcuni segreti della CIA all'allora Unione Sovietica): "Provo compassione per Edward Snowden, perché so che razza di vita dovrà condurre d'ora in poi. Snowden sarà da solo tutta la vita. Sono molto dispiaciuto per lui. Per tutta la vita non potrà fidarsi di nessuno. Credo che questa vicenda finirà male per lui. È comunque spacciato, qualunque cosa faccia lo prenderanno e pagherà per quello che ha fatto".
La sede della NSA (National Security Agency) degli Stati Uniti
Già un mese fa l'Associated Press, una delle agenzie di stampa più importanti al mondo, aveva denunciato l'intrusione del Dipartimento della Giustizia americano nell'ottenere di nascosto informazioni attraverso i tabulati di oltre venti linee telefoniche dell'AP usate da più di un centinaio di giornalisti, nell'arco di due mesi. In quell'occasione l'AP aveva protestato parlando di "una enorme e senza precedenti intrusione nel lavoro di un'organizzazione giornalistica", e la Casa Bianca si era vista costretta a sconfessare l'operato del Dipartimento della Giustizia, affermando che il presidente Obama non ne era al corrente.
Diciamocelo, ogni governo nella storia ha fatto il possibile per venire in possesso di tutte le informazioni possibili. La differenza è che oggi, in un mondo sempre più digitalizzato e globalizzato, le informazioni su ognuno possono essere reperite molto più facilmente.
In seguito agli attentati terroristici dell'11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno tessuto pezzo per pezzo un sistema di iniziative costituzionali (prima con il Patriot Act varato dall'amministrazione Bush, oggi con delle leggi che rendono legale il programma PRISM) volte a costruire una sorta di "democrazia protetta" (il termine non è mio, è del giurista Stefano Rodotà). In questo nuovo scenario, i tabulati telefonici, l'accesso a internet, l'uso delle carte di credito, il passaggio quotidiano davanti a telecamere di sorveglianza sempre più diffuse (ricordo orwelliano), questi e altri elementi lasciano una serie di tracce di ogni persona che si muove all'interno della moderna società, soprattutto nei Paesi con una società basata più o meno blandamente sul sistema capitalistico. Ogni individuo quindi può potenzialmente essere sottoposto a una sorveglianza continua attingendo all'universo sterminato delle banche dati come ad una miniera a cielo aperto. Questo sicuramente può essere visto positivamente, come un sistema di garanzia della sicurezza dello Stato e dei suoi abitanti. Ma chi garantisce dell'uso che viene fatto di tutte queste informazioni?

I documenti consegnati alla stampa da Edward Snowden descrivono il programma PRISM come abilitato alla sorveglienza in profondità su comunicazioni dal vivo e informazioni memorizzate, su dati che comprendono email, chat vocali e videochat, video, foto, conversazioni VoIP, trasferimento di file, notifiche d'accesso e dettagli relativi a siti di reti sociali: praticamente ogni movimento che qualsiasi individuo può compiere nel nostro mondo digitalizzato. Gli articoli del Washington Post e del Guardian hanno riportato che i dati raccolti da PRISM provengono direttamente dai server dei server provider di internet, e dirigenti aziendali di diverse società individuate nei documenti trapelati hanno comunicato che non erano a conoscenza del programma PRISM e in particolare hanno smentito di rendere le informazioni disponibili al governo in vasta scala come riportato dai quotidiani.
La "patata bollente" non è destinata a raffreddarsi in fretta, perché è venuto fuori che anche lo stesso Congresso degli Stati Uniti, o almeno buona parte di esso, era all'oscuro del sistema spionistico allestito dal programma PRISM. Una deputata del Congresso, Loretta Sanchez, dopo aver ascoltato un briefing reso al Congresso da dirigenti della National Security Agency, ha ammesso: "È molto di più di quanto abbiano riportato i media: quella è solo la punta dell'iceberg. Siamo rimasti tutti stupefatti".
Glenn Greenwald, giornalista del Guardian, nonché avvocato, che ha diffuso le prime slide ricevute da Snowden, ha evidenziato proprio questo aspetto: "Come si può pensare che sia remotamente sano in una democrazia avere negli uffici della National Security Agency un massiccio apparato spionistico di cui persino i membri del Congresso erano del tutto ignari? Come si può contestare il valore e la giustificabilità delle rivelazioni che siamo stati in grado di pubblicare grazie a Edward Snowden? Storie che hanno informato il pubblico americano, ma anche il Congresso, su quei programmi?"
Lo stesso Greenwald sottolinea poi che la maggioranza degli stessi cittadini americani, secondo sondaggi d'opinione, sostiene l'azione di Snowden, nonostante sia stata duramente condannata dal governo. Il sondaggio condotto dal Time ha riscontrato che il 54% degli americani è convinto che Snowden abbia fatto bene e solo il 30% lo condanna, un apprezzamento di gran lunga superiore a quello attualmente goduto da Obama e dal Congresso. Se la maggioranza crede che, comunque, Snowden debba essere processato, tra i giovani prevale l'opinione opposta, Snowden non deve neanche essere incriminato. Per il sondaggio condotto dalla Reuters, Snowden è più un "patriota" che un "traditore". E un sondaggio Gallup questa settimana ha rilevato che la maggioranza degli americani (53%) disapprova i programmi di spionaggio della NSA venuti allo scoperto grazie a Snowden, mentre li approva il 37%.
Parallelamente però il partito democratico americano si è allineato su una politica di sostegno ai programmi-spia del governo, che invece contestava con decisione ai tempi dell'amministrazione Bush, e di conseguenza anche l'elettorato di fede democratica si sarebbe appiattito sull'accettazione di questa linea: secondo il Pew Research Center, nel 2006 tali programmi "lesivi della privacy" erano accettati dal 37% del pubblico di fede democratica e considerati inaccettabili dal 61%, mentre nel 2013 farsi spiare dalla NSA è diventato accettabile dal 64% e contestato solo dal 34%. Come si può notare, i pesi sulla bilancia si sono praticamente invertiti.

Quindi scandalizzarsi per i "programmi-spia" della NSA è facile, ma bisogna anche vigilare che dietro un'apparente disapprovazione non si nasconda in realtà una disponibilità all'emulazione, come potrebbe accadere anche in Europa. Già attualmente, in base a una direttiva europea recepita in Italia dal codice della privacy, si impone a tutti i fornitori di servizi di comunicazione la conservazione, per scopi di accertamento e repressione dei reati, dei dati di traffico telematico (per un anno) e telefonico (per due anni). Parliamo dei dati di tutte le comunicazioni, non solo di quelle di soggetti attenzionati dai servizi di intelligence, come invece succede negli USA. Inoltre, in base al codice di procedura penale italiano, è possibile attivare questo genere di controlli preventivi – peraltro sia sui dati di traffico sia sul contenuto delle conversazioni (mentre in America è possibile solo sui dati di traffico e non sul contenuto) – a seguito di una mera richiesta rivolta al procuratore della Repubblica anche solo dal questore o dal comandante provinciale dei Carabinieri. E tutto questo, infine, può essere svolto senza che sia necessaria una precisa notizia di reato e lontano dalle garanzie legali previste dal codice per le intercettazioni giudiziarie vere e proprie.
È opportuno considerare che queste modalità di intercettazione possono essere molto importanti per risolvere indagini su mafia, corruzione e terrorismo. Allo stesso tempo, fatte salve queste importanti ragioni, bisogna tenere le antenne sempre alzate per evitare che un giorno non ne venga fatto cattivo utilizzo.
L'Unione Europea, allo scoppio dello scandalo PRISM, ne ha richiesto spiegazioni agli USA, come ha dichiarato il commissario europeo per gli affari interni Anna Cecilia Malmström: "Gli Stati Uniti hanno capito le nostre preoccupazioni e sono pronti a fornirci tutte le informazioni necessarie su questa questione sensibile. Occorre trovare il giusto equilibrio tra lotta al terrorismo e limiti alla privacy. Abbiamo optato per l'istituzione di un gruppo di esperti provenienti da entrambe le sponde dell'Atlantico, si scambieranno informazioni e studieranno un sistema per fornire delle garanzie sul trattamento dei dati privati. Il PRISM non può funzionare a spese dei cittadini europei".
Il timore è che questo "scambiarsi informazioni" tra USA e UE porti a una collaborazione spionistica, più che a un chiarimento sui limiti dell'intrusione nella privacy.

Insomma, non siamo certo a 1984 di Orwell, ma forse stiamo andando verso una forma di "democrazia protetta", e converrà rimanere aggiornati e informati.

Buon viaggio...

domenica 2 giugno 2013

Viaggio su Marte, sola andata.


Mi viene in mente un pezzetto di una vecchissima canzone dello Zecchino d'Oro: "Fra 10 o 15 anni per la Luna partirem...". Beh, pare che oggi possiamo dire: "Fra 10 o 15 anni per Marte partirem". La NASA ha in progetto di far sbarcare l'uomo sul pianeta rosso entro il 2035. Ma c'è chi prevede di anticipare i tempi addirittura entro una decina d'anni da adesso.

Si tratta di Mars One, una fondazione no profit del ricercatore olandese Bas Lansdorp, che ha studiato un piano apparentemente scientifico, sostenuto anche da alcuni scienziati di primo piano (tra cui Gerardus 't Hooft, premio Nobel per la Fisica nel 1999) per organizzare lo sbarco dell'uomo su Marte nel 2023, inviando ogni due anni nuovi astronauti fino a formare una piccola colonia marziana di venti persone entro il 2033, quindi prima dei tempi previsti dalla NASA.
E siccome mandare uomini su Marte viene a costare miliardi di euro, il simpatico Bas si sarebbe inventato di organizzare il tutto come un reality show, in modo da attrarre sponsor e investitori: è proprio vero che i tempi sono molto cambiati da quando il viaggio nello spazio era considerato una sorta di missione eroica per lo sviluppo futuro dell'umanità!

Io non riesco ancora a convincermi che non si tratti di una fregnaccia, ma intanto la cosa è stata presa sul serio da decine di migliaia di persone. In poco più di un mese sono infatti già oltre 80.000 da tutto il mondo coloro che hanno inviato la loro candidatura per partecipare al futuro viaggio. Il termine per inviare un proprio video di presentazione scade ad agosto e c'è da aspettarsi che i candidati ad allora possano essere centinaia di migliaia, per pochissimi posti a disposizione: solo 40 saranno i primi prescelti per diventare futuri astronauti, che dovranno sottoporsi a un addestramento in una replica della futura base marziana. Addestramento che dovrebbe aver luogo in una zona desertica della Terra e che, udite udite, sarà trasmesso in televisione appunto come un reality show: sarà forse proprio il pubblico, come in ogni reality, a votare i quattro astronauti che prenderanno parte al primo volo, nel 2022!
Bas Lansdorp, fondatore del progetto Mars One
Per percorrere i 60 milioni di chilometri tra Terra e Marte ci vorrà un viaggio spaziale di sette-otto mesi, fino all'arrivo a destinazione nel 2023, secondo i piani di Mars One.
Il fatto che tutta l'impresa diventi un evento mediatico è stata una precisa scelta, spiegano gli organizzatori: il progetto vuole essere totalmente indipendente dalla politica, e quindi per garantire il necessario afflusso di finanziamenti (come dicevamo, diversi miliardi di euro) si è pensato di trasformarlo in un reality, in grado di calamitare sponsor finanziatori; inoltre, dicono sempre gli organizzatori, l'attenzione mondiale sul fenomeno dovrebbe anche far sì che ci sia una certa pressione sul rispetto di tutti i parametri di sicurezza per le persone coinvolte in un viaggio così avventuroso e difficile.
L'altro dettaglio incredibile è che la missione, sempre a causa dei costi enormi, prevederebbe viaggi di sola andata: Mars One prevede che soltanto coloro che sognano di vivere la loro esistenza su Marte saranno adatti ad andare, in quanto, una volta atterrati là, gli astronauti dedicheranno la loro vita a formare una colonia marziana. Un ritorno sulla Terra non è quindi previsto, almeno nell'attuale progetto.
Già dall'anno prossimo, se i fondi saranno sufficienti, dovrebbe partire la costruzione di tutto l'apparato di supporto, a partire dalla preparazione della missione di ricognizione sul terreno, con un robot simile all'attuale Curiosity della NASA, in grado di preparare per tempo l'arrivo dei futuri astronauti.

Chissà se questo progetto prenderà il via. Intanto però vorrei cogliere l'occasione per ricordare e celebrare un vero mito dell'esplorazione spaziale, le due sonde Voyager, che lanciate 36 anni fa stanno tuttora viaggiando alla velocità di circa mille chilometri al minuto. È infatti notizia recentissima che la Voyager 1 sta ormai uscendo dal sistema solare. In tutti questi anni le due sonde ci hanno trasmesso tantissime informazioni e lo stanno tuttora facendo anche da 20 miliardi di chilometri da noi! Tra pochi anni smetteremo di ricevere il loro segnale, ma loro continueranno a viaggiare verso l'esterno del nostro "piccolo" sistema solare, avventurandosi in regioni sconosciute. Complimenti a quelle "inossidabili vecchiette"!

Comunque, sapete che vi dico? Bella l'esplorazione spaziale, ma io più passano gli anni e più mi sento affezionato alla nostra bellissima Terra e non me ne andrei da qui nemmeno per tutto l'oro del mondo!!
E voi? Qualunque sia la vostra opinione...

Buon viaggio!

sabato 25 maggio 2013

La globalizzazione sana


Sono reduce da una puntata di pochi giorni a Kristiansand, cittadina turistica sulla costa meridionale della Norvegia.
Vi dirò, mi è sembrato di andare in un altro mondo, dove tutti sono rilassati e sereni, e dove il benessere si vede dalle piccole cose, come le case curate con rafinatezza all'esterno e all'interno, interno che si può tranquillamente vedere dalla strada, perché gran parte delle case moderne ha grandi vetrate (per accogliere luce) senza tende alle finestre: il che la dice lunga sulla loro abitudine a fidarsi reciprocamente dell'educazione, discrezione e rispetto altrui. Altro particolare che mi ha lasciato un po' basito è stato vedere che al ristorante diverse persone avanzavano tranquillamente più di metà pizza nei piatti rimanendo a chiacchierare a lungo per poi andarsene allegri e sorridenti lasciando piatti mezzi pieni e avanzando addirittura la birra! Scene così in Italia non ne vedevo da anni. In ogni caso io me ne sono fregato e ho terminato tutta la mia pizza e la mia birra, fino all'ultimo goccio... Anche perché là i prezzi sono mediamente almeno 3-4 volte più alti che nel resto d'Europa! Ma va detto che anche il reddito pro capite dei norvegesi è tra i più alti al mondo.

Comunque ciò che forse mi ha sorpreso di più è stato vedere la grande quantità di immigrati bene integrati (prevalentemente dal mondo arabo e dall'Oriente), una minoranza veramente rilevante della popolazione, mi è sembrato. Anche gli immigrati, pur conservando i loro modi di vivere (parlavano tra loro nelle loro lingue d'origine), li vedevi partecipi della vita collettiva, sereni e felici di vivere in quella società.
Case tradizionali in centro a Kristiansand.
E mi sono venuti in mente i recenti episodi di omicidi a picconate e a colpi di machete a Milano e a Londra, sintomi di aspetti deteriori della globalizzazione, drammi collaterali che si stanno moltiplicando anche a causa della crisi nei paesi occidentali, e all'incapacità di affrontarla nel modo giusto.

Di crisi a Kristiansand non ho visto traccia. La Norvegia, più di ogni altro paese in Europa, ha saputo mantenere una propria autonomia politica ed economica. Non fa parte dell'Unione Europea e quindi non adotta l'euro, conservando la sua solidissima moneta, la corona norvegese. Però ha deciso di condividere con l'UE alcuni accordi che gli fanno comodo, come il Trattato di Schengen, che permette ai cittadini europei di recarsi in Norvegia senza passaporto, come se facesse parte dell'UE. Inoltre, le università norvegesi partecipano al progetto Erasmus, cioè all'interscambio studentesco tra istituti universitari dell'Unione Europea. Insomma, gli aspetti migliori dell'integrazione europea la Norvegia li ha fatti propri, smentendo lo stereotipo di paese che rifiuta di aprirsi a collaborazioni tra Stati.
Però tiene la barra ben dritta su una linea politica di piena autonomia dal sistema capitalistico globale. La ricchezza dei norvegesi dipende dalle risorse di petrolio e gas del Mare del Nord: la Norvegia è il maggior esportatore di petrolio in Europa. Eppure, lo Stato si fa carico di non sprecare neanche un po' la ricchezza di risorse naturali e la reinveste in politiche di welfare, che è il migliore al mondo.
Il moderno Kilden Performing Arts Center.
Quindi, a monte ci saranno le risorse naturali, ma c'è soprattutto una classe politica non corrotta, che guarda agli interessi di lungo periodo del proprio paese, e non agli affari che può fare nel breve periodo con multinazionali di altri paesi.

Credo siano questi gli ingredienti che hanno permesso alla Norvegia di gestire la globalizzazione, puntando sulla valorizzazione dei suoi aspetti più sani (scambio e confronto culturale, pari diritti e dignità per tutti i settori della popolazione, puntare molto su fornire servizi di welfare efficienti).

Arriverà il giorno in cui anche altri paesi, come l'Italia, riusciranno a seguire l'esempio della Norvegia, o dovranno prima crollare sotto gli effetti della crisi prodotta dagli aspetti peggiori della globalizzazione?
Temo (o spero, dipende dai punti di vista) che lo sapremo presto.

Buon viaggio!

venerdì 17 maggio 2013

Palestina, uno Stato "à la carte"


Sei mesi fa l'Assemblea Generale dell'ONU, che include come membri quasi tutti gli Stati del mondo, ha votato con una maggioranza di oltre due terzi (tra i voti favorevoli anche quello dell'Italia) per la nascita dello Stato di Palestina: non membro dell'ONU, a causa del veto degli Stati Uniti, ma con lo status di "osservatore" (unico altro caso del genere è lo Stato del Vaticano, in quel caso per una precisa scelta da parte della Santa Sede di rimanere super partes). La delegazione palestinese potrà cioè partecipare alle assemblee generali dell'ONU, ma senza diritto di voto.
Secondo la risoluzione ONU questo nuovo Stato dovrebbe avere come confini quelli precedenti alla "guerra dei sei giorni" del 1967, cioè l'intera Cisgiordania (compresa, come capitale, Gerusalemme Est, cioè la parte palestinese di Gerusalemme) e la Striscia di Gaza. Il problema è che la Cisgiordania fu occupata da Israele nel 1967, al termine della guerra, e da allora è tuttoggi occupata, salvo alcune città palestinesi lasciate all'autonomia del governo palestinese. Un'autonomia relativa, che deve fare i conti in ogni momento con la presenza israeliana su vaste porzioni della Cisgiordania (le famigerate "colonie" e l'esercito israeliano dislocato sul territorio e lungo tutti i confini, anche quello tra Cisgiordania e Giordania), per citare solo uno dei problemi. In questo scenario, riconoscere la Palestina come Stato suona quantomeno strano. Quasi come se il governo palestinese volesse fregiarsi di questo successo politico davanti ai suoi cittadini, dicendo loro: "Eccovi servito finalmente il nostro Stato!". Un nome e una sedia (come quella gigante montata nella piazza centrale di Ramallah, a simboleggiare il seggio dello Stato di Palestina all'ONU), insomma, eccoli serviti come fossero una pietanza sul menu, a lungo richiesta, e finalmente cucinata dopo tanto attendere. Uno Stato sul menu, uno "Stato à la carte".

In questo post non voglio e non posso (per ragioni di spazio e anche di mancanza di competenze) addentrarmi nei molti aspetti che impediscono alla Palestina di essere un vero Stato, ma mi soffermerò, per questa volta, su un argomento che ho toccato con mano moltissime volte durante i due anni in cui ho vissuto là: la "barriera di separazione" costruita da Israele. Probabilmente finirò per accavallare tra loro molte informazioni, ma il quadro è molto complesso e non ho la pretesa di fare un resoconto da esperto quale non sono... Racconterò ciò che ho visto e sentito, lasciando altri argomenti sulla Palestina, magari più allegri, per altri futuri post!

Gerusalemme Est è oggi unilateralmente annessa dallo Stato israeliano, che dichiara l'intera Gerusalemme "indivisibile e santa capitale d'Israele". Da una decina d'anni un muro di separazione militare alto otto metri e lungo oltre 700 km, con torrette militari, separa Gerusalemme da Betlemme (che si trova in territorio palestinese) e dal resto della Cisgiordania, costituendo di fatto un confine, che però ignora i confini previsti dall'ONU perché si insinua per diversi chilometri all'interno della Cisgiordania. I palestinesi che hanno residenza in Cisgiordania non possono varcare il Muro a meno che non abbiano permessi speciali concessi dall'autorità israeliana per particolari esigenze (per esempio per chi lavora o studia al di là del Muro, o per esigenze mediche, o per visitare la "Città Santa" in occasione delle ricorrenze religiose una volta all'anno, ma spesso avviene che il permesso non venga concesso: dipende molto dalle circostanze). Se una famiglia palestinese ha qualche parente sospettato di attivismo anti-israeliano, è certo che il permesso verrà loro negato, anzi gli verrà negata anche la possibilità di varcare la frontiera con la Giordania (frontiera presidiata da Israele, ma pur sempre l'unica frontiera concessa ai palestinesi di Cisgiordania per andare all'estero, pur tra mille difficoltà burocratiche).

Pur vivendo e lavorando a Ramallah (insegnavo musica al Conservatorio Nazionale di Musica palestinese), attraversavo il Muro spesso, ogni volta che volevo fare un giro a Gerusalemme o a Tel Aviv. Le prime volte avevo sempre paura che potesse succedere qualsiasi inconveniente. Poi, a poco a poco, ho fatto l'abitudine ai rituali del passaggio, finendo per prenderla come una routine (come sono costretti a viverla i palestinesi), anzi sorprendendomi positivamente quando i soldati di turno magari erano gentili e non duri e scostanti; un paio di volte mi è perfino capitato di mostrare il passaporto a soldatesse che mi sorridevano. Certo, solo perché sono italiano: ho potuto constatare che i palestinesi che devono passare di lì vengono di norma trattati con durezza e arroganza, come fosse una regola di comportamento che i soldati devono mantenere quando hanno a che fare con i palestinesi che attraversano il checkpoint. Vorrei però aggiungere, per correttezza, che ho visto in altre circostanze soldati israeliani rivolgersi gentilmente ai palestinesi. Questo per dire che non esistono i buoni di qua e i cattivi di là, esistono solo le azioni buone e le azioni cattive, che ognuno è in grado di fare o di non fare.
Il Muro lo si attraversa o in auto o a piedi. In auto si passa attraverso caselli stradali presidiati da militari israeliani, soldati e soldatesse molto giovani, alcuni/e ancora in servizio militare obbligatorio (che in Israele dura moltissimo: tre anni per i ragazzi e due anni per le ragazze).

C'è un checkpoint presso il villaggio di Hizma, che si attraversa solo con i veicoli, non a piedi. Il checkpoint di Hizma è di norma attraversato da israeliani che vogliono recarsi sul Mar Morto, o da quelli che vivono nelle colonie israeliane in Cisgiordania, o dai turisti. Infatti di qui possono passare soltanto coloro che hanno passaporto israeliano, o straniero, o il documento d'identità di cittadini di Gerusalemme. Vediamo se riesco a spiegare cos'è questa carta d'identità particolare.
I palestinesi che hanno residenza a Gerusalemme non hanno passaporto palestinese, e se non fanno richiesta per avere un passaporto israeliano hanno solo un documento d'identità di abitanti di Gerusalemme, di colore blu, che risale al periodo in cui Gerusalemme Est faceva ancora parte del Regno di Giordania (prima del 1967). Quel documento testimonia che sono cittadini residenti di Gerusalemme, ma non attribuisce loro cittadinanza israeliana, e nemmeno palestinese: in sostanza sono apolidi, o meglio "antichi cittadini della Giordania"! Questa confusione dipende dal fatto che il governo israeliano non concede ovviamente cittadinanza palestinese ad alcun abitante di Gerusalemme, considerando Gerusalemme unilateralmente capitale indivisibile d'Israele. Questa situazione sta causando grossi problemi a diverse famiglie palestinesi di Gerusalemme, alcune delle quali di tanto in tanto vengono sfrattate a causa di cavilli giuridici. Pare che le alternative stiano diventando sempre più ridotte: diventare cittadini israeliani, precludendosi ogni possibilità di risiedere in Cisgiordania; oppure emigrare in Cisgiordania per diventare cittadini palestinesi, precludendosi il diritto di poter mettere piede a Gerusalemme (se non con l'incognita di ottenere permessi, come tutti i palestinesi di Cisgiordania); oppure, emigrare dai parenti in Giordania, magari perdendo per sempre la possibilità di entrare non solo a Gerusalemme, ma anche in Cisgiordania. Molti hanno per il momento risolto in modo "illegale" (ma in Palestina la differenza tra legale e illegale spesso coincide con la differenza tra il considerarsi cittadini della propria terra natale o sudditi della potenza israeliana occupante, purtroppo): avendo la casa sia a Ramallah sia a Gerusalemme, magari quella di parenti, tengono come ufficiale la vecchia residenza di Gerusalemme, che garantisce loro la "carta blu", cioè quel documento di cittadini di Gerusalemme "apolidi". E contemporaneamente vivono a Ramallah: in questo modo hanno praticamente libertà di movimento tra Israele e Palestina e possono orgogliosamente dire di non essere cittadini israeliani. Intere famiglie vivono a Ramallah pur non avendone in teoria il diritto secondo le normative israeliane, e allo stesso tempo, se vogliono, possono andare al mare sulla costa mediterranea a Haifa o ad Akko (l'antica San Giovanni d'Acri), città a maggioranza palestinese ma in pieno territorio d'Israele. Chiaramente tutti gli altri palestinesi li considerano molto fortunati. Ma una cosa che non ho capito è come facciano ad andare all'estero (perché so di alcuni che ci sono stati). Probabilmente con un doppio passaporto. Sicuramente mi sfuggerà qualche altro particolare, comunque. Come vedete, è una gran confusione!
Questa è in sostanza una politica messa in atto alla luce del sole da Israele per "israelizzare" l'intera Gerusalemme, in quanto lo Stato non potrebbe garantire diritti ai cittadini con uno status giuridico incerto, come i palestinesi di Gerusalemme che non abbiano passaporto israeliano. Di qui si potrebbe scivolare nell'argomento della discriminazione di fatto dei palestinesi anche con passaporto israeliano, ma non intendo addentrarmi oltre, ci sarebbe troppo da dire.

Il checkpoint più famigerato è quello di Qalandiya, posto esattamente tra la periferia di Gerusalemme Est, abitata da palestinesi, e la periferia esterna di Ramallah. Di qui passano i palestinesi in possesso di permesso per andare dall'altra parte.
Scorcio del checkpoint a Qalandiya, visto dall'interno della Cisgiordania.

Anche qui si può passare in auto, ma per le vetture in direzione di Gerusalemme sono previsti controlli passaporto e perquisizioni del bagagliaio che possono essere anche molto lunghe, e quindi c'è sempre una lunga colonna di auto, autobus e magari anche camion fermi in attesa, a volte con pazienza, a volte strombazzando i clacson: ho sentito che ci sono stati casi di licenziamento di palestinesi per essere arrivati in ritardo sul lavoro poiché erano rimasti bloccati in colonna al checkpoint per ore. Per questo, tutti i palestinesi che hanno la possibilità di usufruire del checkpoint di Hizma (chi ha il documento di residenti di Gerusalemme) oltrepassa Qalandiya per andare verso Hizma, creando costantemente ingorghi incredibili, perché la viabilità in quella zona frontaliera è messa malissimo.
Per chi invece passa a bordo dei pulmini di trasporto pubblico palestinese, è necessario scendere e attraversare il checkpoint di Qalandiya a piedi (tranne l'autista, le donne con bambini piccoli e i vecchi con problemi di salute). Lì bisogna attraversare dei tornelli e sottoporre al check ai raggi X (come in aeroporto) qualsiasi bagaglio, comprese cinture e monetine. Mentre il tuo portafogli sta venendo passato ai raggi X, devi passare davanti a un desk con vetri antiproiettile, dietro il quale uno o più soldati o soldatesse ti chiedono di mostrare il passaporto, di solito con tono brusco e ostile, redarguendoti in malo modo se non sapevi che devi mostrare il passaporto in un determinato modo, appoggiato al vetro a una certa pagina e piegato in un certo modo... Come dicevo, solo dopo un po' di attraversamenti ho imparato come comportarmi (cioè nel modo più disinvolto, come fosse la cosa più normale del mondo) per ottenere sorrisi di approvazione!

E qui voglio raccontare un ricordo particolarmente caro, a questo proposito.
Un giorno io e altri insegnanti del Conservatorio partimmo da Ramallah con alcuni dei nostri studenti che avrebbero partecipato al Concorso Musicale Nazionale Palestinese, a Gerusalemme. Io portavo con me le mie migliori allieve di violino, dolcissime ragazzine dai 9 ai 12 anni, dai bellissimi nomi: Sima, Nour (che significa “luce”), Haya, Melissa, Miora. Gli studenti che poterono passare da Hizma passarono di là, con i genitori. Gli altri, essendo palestinesi residenti in Cisgiordania, dovettero passare da Qalandiya con noi: avevano ottenuto un permesso speciale per recarsi a Gerusalemme per quella circostanza, anche se non era stato facile ottenerlo. Ma solo loro, non i genitori! Non avevano mai varcato il checkpoint di Qalandiya, non a piedi per lo meno, e per molti di loro era la prima volta che si recavano a Gerusalemme, nonostante disti pochi chilometri da Ramallah! I genitori, affidandoceli, si fidarono della nostra responsabilità. Solo una mamma venne di persona insieme alla figlioletta, Nour, una mia bravissima allieva di 8-9 anni, forse la più piccola partecipante al concorso. Fu proprio alla mamma di Nour che i soldati fecero problemi. Essendo tra l'altro di nazionalità marocchina, in quanto moglie di un funzionario dell'Ambasciata del Marocco a Ramallah, contava probabilmente di poter passare con il passaporto del Marocco, o con un documento dell'Ambasciata. Invece il soldato di turno fu irremovibile per qualche cavillo, e la signora dovette passare da un altro tornello dove c'era una guardia più ragionevole. Immaginate la paura della piccola Nour nel vedere un soldato che urlava alla mamma che lei non poteva passare, gracchiando al microfono da dietro il vetro antiproiettile dei gabbiotti di sicurezza. Eppure la piccola Nour più tardi suonò benissimo al concorso e fu a lungo applaudita dal pubblico e dalla commissione: quel giorno fui fiero di lei come pure di tutte le altre mie allieve (tutte suonarono benissimo e tre su cinque passarono alla fase finale pur dovendo competere con studenti con molta più esperienza).
Rimasi sopreso anche da come reagirono al passaggio al checkpoint. Tutti i ragazzini erano visibilmente preoccupati, ma anche consapevoli di cosa si trattava (chissà quante volte ne avevano sentito parlare in famiglia), e appena terminato l'attraversamento, ancora nei pressi dell'uscita del checkpoint, mostrarono subito un atteggiamento disinvolto e ciarliero come sempre, forse una reazione inconscia di voglia di normalità: quella voglia di normalità che ho visto in quasi tutti i palestinesi che ho incontrato, ma soprattutto nei giovani, intenti ad andare avanti con le loro vite e a divertirsi, cercando di ignorare le difficoltà indotte dall'occupazione.

Al termine di questo lunghissimo post, devo dire che nei miei due anni di vita in quella terra ho imparato anche a comprendere il punto di vista di tanti israeliani, nei limiti del mio vissuto. A parte i "fanatici" (magari per interesse) che affermano che Israele deve occupare tutta la regione dal mare al fiume Giordano perché quella era la "Terra dei Padri", ci sono anche tantissimi israeliani che hanno un modo di vedere la realtà come la vediamo noi, e che semplicemente hanno scelto di vivere in quel Paese e vorrebbero viverci in pace e sicurezza, senza lo spettro di attentati suicidi o attacchi di Paesi arabi confinanti. Girando a Tel Aviv non ho incontrato gente smaniosa di colonizzare o di fare del male, anzi, ho visto gente che andava in spiaggia, a divertirsi, a fare shopping, gente allegra con voglia di vivere e di amare. Nella loro ottica, il Muro che confina milioni di palestinesi in una sorta di prigione a cielo aperto in Cisgiordania è un male necessario, per porre fine ad altro male, accumulatosi per decenni e culminato con la seconda intifada. Io, se mi metto nei loro panni, non li biasimo se hanno paura di nuove violenze, e condanno ovviamente tutte le violenze perpetrate da attentatori palestinesi.
Ma va detta tutta la verità, e cioè che la maggior parte della violenza è stata operata dall'esercito israeliano contro civili palestinesi innocenti (quasi 5mila uccisi solo tra il 2000 e il 2005). Bisognerebbe anche sapere della violenza, oggi molto frequente e molto grave, dei "coloni" israeliani in Cisgiordania contro i palestinesi.
La realtà che sta emergendo anno dopo anno è che purtroppo al governo israeliano non interessa tanto che i due popoli (israeliano e palestinese) vivano bene entrambi, garantendo la pace. Ciò a cui mira la linea politica d'Israele, anche quella attuale, è controllare la sicurezza di tutta la regione, "se necessario" anche con la forza. In quel "se necessario" sta tutto il machiavellismo dei politici israeliani, che si rendono conto che dipende moltissimo soprattutto dalla loro politica se, periodicamente, la frustrazione dei Palestinesi umiliati provoca rigurgiti di violenza. Lo sanno e ci giocano, anche a livello elettorale. Non è un mistero che una parte del governo israeliano attuale vedrebbe con favore una totale annessione della Cisgiordania, escludendo solo le città palestinesi come Ramallah, Betlemme, Nablus, Gerico... Insomma, lasciando delle "riserve indiane" ai palestinesi, e annettendo a tutti gli effetti tutto il resto. Per questo il riconoscimento da parte dell'ONU di questo Stato palestinese à la carte dà tanto fastidio e preoccupa. Oltretutto, il governo palestinese ora ha il potere, come ogni Stato, di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale contro i crimini perpetrati ai danni dei propri cittadini. Cosa salterà fuori se un governo palestinese dovesse appellarsi alla Corte contro i mille crimini israeliani sul "proprio" territorio?

Meglio non pensarci. Per concludere con positività, voglio proporvi il seguente video, per chi riesce a leggere i sottotitoli in inglese. Mi ha ricordato molto le voci e le esperienze di persone che ho conosciuto a Ramallah, in particolare di un'allieva (non mia) che giocava proprio nella squadra di calcio femminile. Vorrei concludere dicendo che quasi tutti i palestinesi che io ho visto sono come queste persone, positive e costruttive, e desiderose di aprirsi al mondo. Sarebbe il caso di partire da queste caratteristiche positive, sia in campo palestinese sia in quello israeliano, per tentare di porre fine al dilemma israelo-palestinese.

Buon viaggio!