sabato 25 maggio 2013

La globalizzazione sana


Sono reduce da una puntata di pochi giorni a Kristiansand, cittadina turistica sulla costa meridionale della Norvegia.
Vi dirò, mi è sembrato di andare in un altro mondo, dove tutti sono rilassati e sereni, e dove il benessere si vede dalle piccole cose, come le case curate con rafinatezza all'esterno e all'interno, interno che si può tranquillamente vedere dalla strada, perché gran parte delle case moderne ha grandi vetrate (per accogliere luce) senza tende alle finestre: il che la dice lunga sulla loro abitudine a fidarsi reciprocamente dell'educazione, discrezione e rispetto altrui. Altro particolare che mi ha lasciato un po' basito è stato vedere che al ristorante diverse persone avanzavano tranquillamente più di metà pizza nei piatti rimanendo a chiacchierare a lungo per poi andarsene allegri e sorridenti lasciando piatti mezzi pieni e avanzando addirittura la birra! Scene così in Italia non ne vedevo da anni. In ogni caso io me ne sono fregato e ho terminato tutta la mia pizza e la mia birra, fino all'ultimo goccio... Anche perché là i prezzi sono mediamente almeno 3-4 volte più alti che nel resto d'Europa! Ma va detto che anche il reddito pro capite dei norvegesi è tra i più alti al mondo.

Comunque ciò che forse mi ha sorpreso di più è stato vedere la grande quantità di immigrati bene integrati (prevalentemente dal mondo arabo e dall'Oriente), una minoranza veramente rilevante della popolazione, mi è sembrato. Anche gli immigrati, pur conservando i loro modi di vivere (parlavano tra loro nelle loro lingue d'origine), li vedevi partecipi della vita collettiva, sereni e felici di vivere in quella società.
Case tradizionali in centro a Kristiansand.
E mi sono venuti in mente i recenti episodi di omicidi a picconate e a colpi di machete a Milano e a Londra, sintomi di aspetti deteriori della globalizzazione, drammi collaterali che si stanno moltiplicando anche a causa della crisi nei paesi occidentali, e all'incapacità di affrontarla nel modo giusto.

Di crisi a Kristiansand non ho visto traccia. La Norvegia, più di ogni altro paese in Europa, ha saputo mantenere una propria autonomia politica ed economica. Non fa parte dell'Unione Europea e quindi non adotta l'euro, conservando la sua solidissima moneta, la corona norvegese. Però ha deciso di condividere con l'UE alcuni accordi che gli fanno comodo, come il Trattato di Schengen, che permette ai cittadini europei di recarsi in Norvegia senza passaporto, come se facesse parte dell'UE. Inoltre, le università norvegesi partecipano al progetto Erasmus, cioè all'interscambio studentesco tra istituti universitari dell'Unione Europea. Insomma, gli aspetti migliori dell'integrazione europea la Norvegia li ha fatti propri, smentendo lo stereotipo di paese che rifiuta di aprirsi a collaborazioni tra Stati.
Però tiene la barra ben dritta su una linea politica di piena autonomia dal sistema capitalistico globale. La ricchezza dei norvegesi dipende dalle risorse di petrolio e gas del Mare del Nord: la Norvegia è il maggior esportatore di petrolio in Europa. Eppure, lo Stato si fa carico di non sprecare neanche un po' la ricchezza di risorse naturali e la reinveste in politiche di welfare, che è il migliore al mondo.
Il moderno Kilden Performing Arts Center.
Quindi, a monte ci saranno le risorse naturali, ma c'è soprattutto una classe politica non corrotta, che guarda agli interessi di lungo periodo del proprio paese, e non agli affari che può fare nel breve periodo con multinazionali di altri paesi.

Credo siano questi gli ingredienti che hanno permesso alla Norvegia di gestire la globalizzazione, puntando sulla valorizzazione dei suoi aspetti più sani (scambio e confronto culturale, pari diritti e dignità per tutti i settori della popolazione, puntare molto su fornire servizi di welfare efficienti).

Arriverà il giorno in cui anche altri paesi, come l'Italia, riusciranno a seguire l'esempio della Norvegia, o dovranno prima crollare sotto gli effetti della crisi prodotta dagli aspetti peggiori della globalizzazione?
Temo (o spero, dipende dai punti di vista) che lo sapremo presto.

Buon viaggio!

venerdì 17 maggio 2013

Palestina, uno Stato "à la carte"


Sei mesi fa l'Assemblea Generale dell'ONU, che include come membri quasi tutti gli Stati del mondo, ha votato con una maggioranza di oltre due terzi (tra i voti favorevoli anche quello dell'Italia) per la nascita dello Stato di Palestina: non membro dell'ONU, a causa del veto degli Stati Uniti, ma con lo status di "osservatore" (unico altro caso del genere è lo Stato del Vaticano, in quel caso per una precisa scelta da parte della Santa Sede di rimanere super partes). La delegazione palestinese potrà cioè partecipare alle assemblee generali dell'ONU, ma senza diritto di voto.
Secondo la risoluzione ONU questo nuovo Stato dovrebbe avere come confini quelli precedenti alla "guerra dei sei giorni" del 1967, cioè l'intera Cisgiordania (compresa, come capitale, Gerusalemme Est, cioè la parte palestinese di Gerusalemme) e la Striscia di Gaza. Il problema è che la Cisgiordania fu occupata da Israele nel 1967, al termine della guerra, e da allora è tuttoggi occupata, salvo alcune città palestinesi lasciate all'autonomia del governo palestinese. Un'autonomia relativa, che deve fare i conti in ogni momento con la presenza israeliana su vaste porzioni della Cisgiordania (le famigerate "colonie" e l'esercito israeliano dislocato sul territorio e lungo tutti i confini, anche quello tra Cisgiordania e Giordania), per citare solo uno dei problemi. In questo scenario, riconoscere la Palestina come Stato suona quantomeno strano. Quasi come se il governo palestinese volesse fregiarsi di questo successo politico davanti ai suoi cittadini, dicendo loro: "Eccovi servito finalmente il nostro Stato!". Un nome e una sedia (come quella gigante montata nella piazza centrale di Ramallah, a simboleggiare il seggio dello Stato di Palestina all'ONU), insomma, eccoli serviti come fossero una pietanza sul menu, a lungo richiesta, e finalmente cucinata dopo tanto attendere. Uno Stato sul menu, uno "Stato à la carte".

In questo post non voglio e non posso (per ragioni di spazio e anche di mancanza di competenze) addentrarmi nei molti aspetti che impediscono alla Palestina di essere un vero Stato, ma mi soffermerò, per questa volta, su un argomento che ho toccato con mano moltissime volte durante i due anni in cui ho vissuto là: la "barriera di separazione" costruita da Israele. Probabilmente finirò per accavallare tra loro molte informazioni, ma il quadro è molto complesso e non ho la pretesa di fare un resoconto da esperto quale non sono... Racconterò ciò che ho visto e sentito, lasciando altri argomenti sulla Palestina, magari più allegri, per altri futuri post!

Gerusalemme Est è oggi unilateralmente annessa dallo Stato israeliano, che dichiara l'intera Gerusalemme "indivisibile e santa capitale d'Israele". Da una decina d'anni un muro di separazione militare alto otto metri e lungo oltre 700 km, con torrette militari, separa Gerusalemme da Betlemme (che si trova in territorio palestinese) e dal resto della Cisgiordania, costituendo di fatto un confine, che però ignora i confini previsti dall'ONU perché si insinua per diversi chilometri all'interno della Cisgiordania. I palestinesi che hanno residenza in Cisgiordania non possono varcare il Muro a meno che non abbiano permessi speciali concessi dall'autorità israeliana per particolari esigenze (per esempio per chi lavora o studia al di là del Muro, o per esigenze mediche, o per visitare la "Città Santa" in occasione delle ricorrenze religiose una volta all'anno, ma spesso avviene che il permesso non venga concesso: dipende molto dalle circostanze). Se una famiglia palestinese ha qualche parente sospettato di attivismo anti-israeliano, è certo che il permesso verrà loro negato, anzi gli verrà negata anche la possibilità di varcare la frontiera con la Giordania (frontiera presidiata da Israele, ma pur sempre l'unica frontiera concessa ai palestinesi di Cisgiordania per andare all'estero, pur tra mille difficoltà burocratiche).

Pur vivendo e lavorando a Ramallah (insegnavo musica al Conservatorio Nazionale di Musica palestinese), attraversavo il Muro spesso, ogni volta che volevo fare un giro a Gerusalemme o a Tel Aviv. Le prime volte avevo sempre paura che potesse succedere qualsiasi inconveniente. Poi, a poco a poco, ho fatto l'abitudine ai rituali del passaggio, finendo per prenderla come una routine (come sono costretti a viverla i palestinesi), anzi sorprendendomi positivamente quando i soldati di turno magari erano gentili e non duri e scostanti; un paio di volte mi è perfino capitato di mostrare il passaporto a soldatesse che mi sorridevano. Certo, solo perché sono italiano: ho potuto constatare che i palestinesi che devono passare di lì vengono di norma trattati con durezza e arroganza, come fosse una regola di comportamento che i soldati devono mantenere quando hanno a che fare con i palestinesi che attraversano il checkpoint. Vorrei però aggiungere, per correttezza, che ho visto in altre circostanze soldati israeliani rivolgersi gentilmente ai palestinesi. Questo per dire che non esistono i buoni di qua e i cattivi di là, esistono solo le azioni buone e le azioni cattive, che ognuno è in grado di fare o di non fare.
Il Muro lo si attraversa o in auto o a piedi. In auto si passa attraverso caselli stradali presidiati da militari israeliani, soldati e soldatesse molto giovani, alcuni/e ancora in servizio militare obbligatorio (che in Israele dura moltissimo: tre anni per i ragazzi e due anni per le ragazze).

C'è un checkpoint presso il villaggio di Hizma, che si attraversa solo con i veicoli, non a piedi. Il checkpoint di Hizma è di norma attraversato da israeliani che vogliono recarsi sul Mar Morto, o da quelli che vivono nelle colonie israeliane in Cisgiordania, o dai turisti. Infatti di qui possono passare soltanto coloro che hanno passaporto israeliano, o straniero, o il documento d'identità di cittadini di Gerusalemme. Vediamo se riesco a spiegare cos'è questa carta d'identità particolare.
I palestinesi che hanno residenza a Gerusalemme non hanno passaporto palestinese, e se non fanno richiesta per avere un passaporto israeliano hanno solo un documento d'identità di abitanti di Gerusalemme, di colore blu, che risale al periodo in cui Gerusalemme Est faceva ancora parte del Regno di Giordania (prima del 1967). Quel documento testimonia che sono cittadini residenti di Gerusalemme, ma non attribuisce loro cittadinanza israeliana, e nemmeno palestinese: in sostanza sono apolidi, o meglio "antichi cittadini della Giordania"! Questa confusione dipende dal fatto che il governo israeliano non concede ovviamente cittadinanza palestinese ad alcun abitante di Gerusalemme, considerando Gerusalemme unilateralmente capitale indivisibile d'Israele. Questa situazione sta causando grossi problemi a diverse famiglie palestinesi di Gerusalemme, alcune delle quali di tanto in tanto vengono sfrattate a causa di cavilli giuridici. Pare che le alternative stiano diventando sempre più ridotte: diventare cittadini israeliani, precludendosi ogni possibilità di risiedere in Cisgiordania; oppure emigrare in Cisgiordania per diventare cittadini palestinesi, precludendosi il diritto di poter mettere piede a Gerusalemme (se non con l'incognita di ottenere permessi, come tutti i palestinesi di Cisgiordania); oppure, emigrare dai parenti in Giordania, magari perdendo per sempre la possibilità di entrare non solo a Gerusalemme, ma anche in Cisgiordania. Molti hanno per il momento risolto in modo "illegale" (ma in Palestina la differenza tra legale e illegale spesso coincide con la differenza tra il considerarsi cittadini della propria terra natale o sudditi della potenza israeliana occupante, purtroppo): avendo la casa sia a Ramallah sia a Gerusalemme, magari quella di parenti, tengono come ufficiale la vecchia residenza di Gerusalemme, che garantisce loro la "carta blu", cioè quel documento di cittadini di Gerusalemme "apolidi". E contemporaneamente vivono a Ramallah: in questo modo hanno praticamente libertà di movimento tra Israele e Palestina e possono orgogliosamente dire di non essere cittadini israeliani. Intere famiglie vivono a Ramallah pur non avendone in teoria il diritto secondo le normative israeliane, e allo stesso tempo, se vogliono, possono andare al mare sulla costa mediterranea a Haifa o ad Akko (l'antica San Giovanni d'Acri), città a maggioranza palestinese ma in pieno territorio d'Israele. Chiaramente tutti gli altri palestinesi li considerano molto fortunati. Ma una cosa che non ho capito è come facciano ad andare all'estero (perché so di alcuni che ci sono stati). Probabilmente con un doppio passaporto. Sicuramente mi sfuggerà qualche altro particolare, comunque. Come vedete, è una gran confusione!
Questa è in sostanza una politica messa in atto alla luce del sole da Israele per "israelizzare" l'intera Gerusalemme, in quanto lo Stato non potrebbe garantire diritti ai cittadini con uno status giuridico incerto, come i palestinesi di Gerusalemme che non abbiano passaporto israeliano. Di qui si potrebbe scivolare nell'argomento della discriminazione di fatto dei palestinesi anche con passaporto israeliano, ma non intendo addentrarmi oltre, ci sarebbe troppo da dire.

Il checkpoint più famigerato è quello di Qalandiya, posto esattamente tra la periferia di Gerusalemme Est, abitata da palestinesi, e la periferia esterna di Ramallah. Di qui passano i palestinesi in possesso di permesso per andare dall'altra parte.
Scorcio del checkpoint a Qalandiya, visto dall'interno della Cisgiordania.

Anche qui si può passare in auto, ma per le vetture in direzione di Gerusalemme sono previsti controlli passaporto e perquisizioni del bagagliaio che possono essere anche molto lunghe, e quindi c'è sempre una lunga colonna di auto, autobus e magari anche camion fermi in attesa, a volte con pazienza, a volte strombazzando i clacson: ho sentito che ci sono stati casi di licenziamento di palestinesi per essere arrivati in ritardo sul lavoro poiché erano rimasti bloccati in colonna al checkpoint per ore. Per questo, tutti i palestinesi che hanno la possibilità di usufruire del checkpoint di Hizma (chi ha il documento di residenti di Gerusalemme) oltrepassa Qalandiya per andare verso Hizma, creando costantemente ingorghi incredibili, perché la viabilità in quella zona frontaliera è messa malissimo.
Per chi invece passa a bordo dei pulmini di trasporto pubblico palestinese, è necessario scendere e attraversare il checkpoint di Qalandiya a piedi (tranne l'autista, le donne con bambini piccoli e i vecchi con problemi di salute). Lì bisogna attraversare dei tornelli e sottoporre al check ai raggi X (come in aeroporto) qualsiasi bagaglio, comprese cinture e monetine. Mentre il tuo portafogli sta venendo passato ai raggi X, devi passare davanti a un desk con vetri antiproiettile, dietro il quale uno o più soldati o soldatesse ti chiedono di mostrare il passaporto, di solito con tono brusco e ostile, redarguendoti in malo modo se non sapevi che devi mostrare il passaporto in un determinato modo, appoggiato al vetro a una certa pagina e piegato in un certo modo... Come dicevo, solo dopo un po' di attraversamenti ho imparato come comportarmi (cioè nel modo più disinvolto, come fosse la cosa più normale del mondo) per ottenere sorrisi di approvazione!

E qui voglio raccontare un ricordo particolarmente caro, a questo proposito.
Un giorno io e altri insegnanti del Conservatorio partimmo da Ramallah con alcuni dei nostri studenti che avrebbero partecipato al Concorso Musicale Nazionale Palestinese, a Gerusalemme. Io portavo con me le mie migliori allieve di violino, dolcissime ragazzine dai 9 ai 12 anni, dai bellissimi nomi: Sima, Nour (che significa “luce”), Haya, Melissa, Miora. Gli studenti che poterono passare da Hizma passarono di là, con i genitori. Gli altri, essendo palestinesi residenti in Cisgiordania, dovettero passare da Qalandiya con noi: avevano ottenuto un permesso speciale per recarsi a Gerusalemme per quella circostanza, anche se non era stato facile ottenerlo. Ma solo loro, non i genitori! Non avevano mai varcato il checkpoint di Qalandiya, non a piedi per lo meno, e per molti di loro era la prima volta che si recavano a Gerusalemme, nonostante disti pochi chilometri da Ramallah! I genitori, affidandoceli, si fidarono della nostra responsabilità. Solo una mamma venne di persona insieme alla figlioletta, Nour, una mia bravissima allieva di 8-9 anni, forse la più piccola partecipante al concorso. Fu proprio alla mamma di Nour che i soldati fecero problemi. Essendo tra l'altro di nazionalità marocchina, in quanto moglie di un funzionario dell'Ambasciata del Marocco a Ramallah, contava probabilmente di poter passare con il passaporto del Marocco, o con un documento dell'Ambasciata. Invece il soldato di turno fu irremovibile per qualche cavillo, e la signora dovette passare da un altro tornello dove c'era una guardia più ragionevole. Immaginate la paura della piccola Nour nel vedere un soldato che urlava alla mamma che lei non poteva passare, gracchiando al microfono da dietro il vetro antiproiettile dei gabbiotti di sicurezza. Eppure la piccola Nour più tardi suonò benissimo al concorso e fu a lungo applaudita dal pubblico e dalla commissione: quel giorno fui fiero di lei come pure di tutte le altre mie allieve (tutte suonarono benissimo e tre su cinque passarono alla fase finale pur dovendo competere con studenti con molta più esperienza).
Rimasi sopreso anche da come reagirono al passaggio al checkpoint. Tutti i ragazzini erano visibilmente preoccupati, ma anche consapevoli di cosa si trattava (chissà quante volte ne avevano sentito parlare in famiglia), e appena terminato l'attraversamento, ancora nei pressi dell'uscita del checkpoint, mostrarono subito un atteggiamento disinvolto e ciarliero come sempre, forse una reazione inconscia di voglia di normalità: quella voglia di normalità che ho visto in quasi tutti i palestinesi che ho incontrato, ma soprattutto nei giovani, intenti ad andare avanti con le loro vite e a divertirsi, cercando di ignorare le difficoltà indotte dall'occupazione.

Al termine di questo lunghissimo post, devo dire che nei miei due anni di vita in quella terra ho imparato anche a comprendere il punto di vista di tanti israeliani, nei limiti del mio vissuto. A parte i "fanatici" (magari per interesse) che affermano che Israele deve occupare tutta la regione dal mare al fiume Giordano perché quella era la "Terra dei Padri", ci sono anche tantissimi israeliani che hanno un modo di vedere la realtà come la vediamo noi, e che semplicemente hanno scelto di vivere in quel Paese e vorrebbero viverci in pace e sicurezza, senza lo spettro di attentati suicidi o attacchi di Paesi arabi confinanti. Girando a Tel Aviv non ho incontrato gente smaniosa di colonizzare o di fare del male, anzi, ho visto gente che andava in spiaggia, a divertirsi, a fare shopping, gente allegra con voglia di vivere e di amare. Nella loro ottica, il Muro che confina milioni di palestinesi in una sorta di prigione a cielo aperto in Cisgiordania è un male necessario, per porre fine ad altro male, accumulatosi per decenni e culminato con la seconda intifada. Io, se mi metto nei loro panni, non li biasimo se hanno paura di nuove violenze, e condanno ovviamente tutte le violenze perpetrate da attentatori palestinesi.
Ma va detta tutta la verità, e cioè che la maggior parte della violenza è stata operata dall'esercito israeliano contro civili palestinesi innocenti (quasi 5mila uccisi solo tra il 2000 e il 2005). Bisognerebbe anche sapere della violenza, oggi molto frequente e molto grave, dei "coloni" israeliani in Cisgiordania contro i palestinesi.
La realtà che sta emergendo anno dopo anno è che purtroppo al governo israeliano non interessa tanto che i due popoli (israeliano e palestinese) vivano bene entrambi, garantendo la pace. Ciò a cui mira la linea politica d'Israele, anche quella attuale, è controllare la sicurezza di tutta la regione, "se necessario" anche con la forza. In quel "se necessario" sta tutto il machiavellismo dei politici israeliani, che si rendono conto che dipende moltissimo soprattutto dalla loro politica se, periodicamente, la frustrazione dei Palestinesi umiliati provoca rigurgiti di violenza. Lo sanno e ci giocano, anche a livello elettorale. Non è un mistero che una parte del governo israeliano attuale vedrebbe con favore una totale annessione della Cisgiordania, escludendo solo le città palestinesi come Ramallah, Betlemme, Nablus, Gerico... Insomma, lasciando delle "riserve indiane" ai palestinesi, e annettendo a tutti gli effetti tutto il resto. Per questo il riconoscimento da parte dell'ONU di questo Stato palestinese à la carte dà tanto fastidio e preoccupa. Oltretutto, il governo palestinese ora ha il potere, come ogni Stato, di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale contro i crimini perpetrati ai danni dei propri cittadini. Cosa salterà fuori se un governo palestinese dovesse appellarsi alla Corte contro i mille crimini israeliani sul "proprio" territorio?

Meglio non pensarci. Per concludere con positività, voglio proporvi il seguente video, per chi riesce a leggere i sottotitoli in inglese. Mi ha ricordato molto le voci e le esperienze di persone che ho conosciuto a Ramallah, in particolare di un'allieva (non mia) che giocava proprio nella squadra di calcio femminile. Vorrei concludere dicendo che quasi tutti i palestinesi che io ho visto sono come queste persone, positive e costruttive, e desiderose di aprirsi al mondo. Sarebbe il caso di partire da queste caratteristiche positive, sia in campo palestinese sia in quello israeliano, per tentare di porre fine al dilemma israelo-palestinese.

Buon viaggio!

domenica 12 maggio 2013

Dove stiamo andando?


Prometto che questo sarà il primo e unico post a sfondo filosofico, ma per cominciare il viaggio di questo blog non potevo fare a meno di ragionare un attimo su pensieri che ultimamente mi tornano spesso, soprattutto in questo periodo di crisi globale (non solo economica).
Okay, la globalizzazione e l'era della comunicazione hanno messo in contatto e avvicinato i popoli della Terra come mai era avvenuto prima. In particolare i giovani, da qualsiasi parte del pianeta provengano, hanno oggi aspirazioni e valori molto simili: tra di loro hanno molta più capacità di condivisione, rispetto alle generazioni precedenti, e questo è positivo e beneaugurante.
Ma... L'umanità in che direzione sta andando? Nessuno ha una rotta tracciata, stiamo per così dire navigando a vista, e francamente anche i leader mondiali ormai mi sembra che non si fidino nemmeno di ciò che loro stessi hanno detto il giorno prima.
I miei primi ricordi risalgono agli anni '80. Il mondo stava vivendo gli ultimi anni della Guerra Fredda, anche se ormai il confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica era alle battute finali. Ma nessuno allora lo immaginava, e il timore per un ipotetico conflitto nucleare non era ancora tramontato del tutto. Quando ancora frequentavo le scuole elementari, sentendo parlare gli adulti arrivai alla conclusione che quei russi della spaventosa Unione Sovietica dovevano essere proprio dei malvagi terrificanti (non capendo nulla di politica, quando in casa al telegiornale nominavano Gorbaciov ero convinto che fosse cattivissimo e pericoloso, solo perché era il "grande capo" dei russi...). Per noi bambini invece l'America incarnava il volto positivo dell'esistenza: americani erano i telefilm, i modi di dire e di scherzare (come per esempio il "Gimme five! All right!" diffuso tra i ragazzini da una canzone di Jovanotti), e la pace in Europa, ci dicevano, era stata possibile grazie al gigante buono americano. Insomma, il mondo era diviso tra il bene e il male, non c'erano discorsi.
Quanto sono lontani quegli anni! La fine del conflitto bipolare trascinò con sé le vecchie ideologie e un nuovo potentissimo attore prese poco a poco la scena: il relativismo.
Che senso aveva ormai parlare di destra e di sinistra? E, archiviata la propaganda dei blocchi, nuovi filoni storiografici affermavano che tutte le parti in conflitto avevano avuto le loro ragioni e i loro torti. Per qualche anno sembrò che l'unica cosa certa fosse la potenza degli Stati Uniti: unica superpotenza mondiale rimasta, in grado di dominare il mondo in campo economico, militare e anche scientifico. Ma l'11 settembre 2001 anche questa convinzione crollò (scusate il verbo evocativo).
L'isterismo politico del governo americano di allora imbarcò il mondo in nuove guerre. Come in una reazione a catena, altri Stati e altri gruppi paramilitari si sentirono "autorizzati" a ricorrere apertamente alla violenza (non che prima non ci fosse violenza militare, ma era più stigmatizzata).
L'ultimo tassello che mancava a questo quadro incerto era la crisi economica mondiale, ed eccola arrivata puntuale!
Una cosa è certa: la crisi, economica e sociale, prima o poi verrà superata. Ma l'incognita è: a che prezzo?
La situazione italiana mi preoccupa per ragioni note: la classe politica dirigente è tuttora, nel suo complesso, la stessa che ha governato il Paese negli ultimi decenni, producendo risultati deludenti, eufemisticamente parlando. Non sembra proprio in grado di porre estremi rimedi a mali estremi, e sembra d'altra parte intenzionata a non mollare la propria posizione di "classe dirigente".
Questo in realtà è lo stesso scenario in cui si ritrovano molte nazioni nel mondo, è quindi un problema mondiale.
Mi sovviene però anche un'altra preoccupazione: se si dice di mandare in pensione l'intera classe politica, senza particolari distinguo, chi rimane a prendere le redini? Movimenti civici di cittadini? Chissà, l'idea in sé magari non è male, ma come si riusciranno a gestire in questo modo problematiche di portata globale? Forse la cosiddetta "decrescita felice" è davvero la prospettiva più probabile in futuro per evitare brutti scenari?

Mi fermo qui perché altrimenti mi viene mal di testa. Ma le cronache di questi giorni mi hanno spinto a iniziare il blog con questi ragionamenti. Ora che li ho buttati fuori, mi riprometto di non tornarci sopra, e di passare a post più consoni a questo blog!

Buon viaggio!

martedì 7 maggio 2013

Un curioso viaggiatore

Come mai ho aperto un blog?
Perché mi è sempre piaciuto scrivere. E perché ho un po' di bagaglio di cose vissute da mettere nero su bianco, finché rimangono fresche nella memoria.
Se la vita è come un viaggio, all'interno di questo viaggio mi è capitato di farne altri, a volte per svago, a volte portato dalla mia attività di musicista.
Sono sempre stato curioso dei mondi lontani dalla nostra quotidianità. Eppure fino a pochi anni fa non avrei mai e poi mai immaginato che la mia curiosità mi avrebbe portato a vivere, per esigenze di lavoro e per periodi discretamente lunghi, in posti così diversi come Barcellona, Ramallah in Palestina, o Tenerife.
Mi sono scoperto viaggiatore, alla ricerca di un lavoro e di un'esistenza che saziasse la voglia di conoscere realtà diverse. Un viaggiatore curioso, che ha potuto arricchirsi di esperienze che nel chiuso della propria città non avrebbe mai vissuto.
Ma anche un curioso viaggiatore. Curioso nel senso di atipico, strano, forse. Perché lasciai una prospettiva di inserimento lavorativo quasi certo a due passi da casa, in una web agency, per andare a fare la vita di musicista a tempo determinato a Barcellona. E poi da lì, sempre inseguendo nuove "avventure", non mi sono più fermato, facendo del viaggio non un momento di vacanza, ma una parte integrante della vita, almeno finora. D'altronde, appunto, non è forse un viaggio la vita stessa?
A chi mi ha visto brevemente (o meno brevemente) attraversare la sua vita, forse talvolta avrò fatto proprio l'impressione di un curioso viaggiatore. Una volta a Santiago de Compostela, ero lì da non più di due giorni, mentre fuori pioveva a dirotto un avventore in un bar cominciò a chiacchierare con me del più e del meno in lingua galega, e rimase sorpreso quando seppe che non ero del posto: era convinto che fossi una guida turistica locale!
Intendo quindi usare questo spazio come un contenitore di riflessioni e racconti: racconti di esperienze e riflessioni sul presente, in piena libertà.
Schizzi di viaggio passato e presente, e progetti di viaggio futuro.