Siamo arrivati alla nostra ultima puntata della serie "Sudafrica: le Origini", serie che racconta chi popolava il Sudafrica durante le centinaia di migliaia di anni prima dell'arrivo dei colonizzatori europei. Questa è una puntata densa e molto interessante perché alla fine ci introdurrà a ciò che era il Sudafrica dei popoli nativi quando arrivarono i colonizzatori. Ma cominciamo da quasi due millenni prima di allora.
Come abbiamo visto nei post precedenti, decine di migliaia di anni fa gli antichi esseri umani in Sudafrica già si erano già dotati di certe invenzioni (come arco e frecce, uso di colori d'ocra, uso di giacigli e "lenzuola" ricavati da vegetali) molto prima che in altre parti del mondo, almeno per quanto le scoperte archeologiche ci hanno rivelato finora. Eppure, a partire da circa ventimila anni fa, o prima, in altre regioni del mondo gli umani avevano cominciato una serie di evoluzioni che li avrebbero portati nel giro di poche migliaia di anni a inventare l'agricoltura, poi villaggi stanziali e poi città, e infine veri e propri imperi.
Nell'Africa meridionale incece, rimasta da sempre isolata dal resto del mondo, ancora fin verso l'era della nascita di Cristo i Khoesān erano gli unici abitanti a vivere in queste terre immense, piene di natura e di cacciagione. Non avevano conosciuto l'invenzione dell'agricoltura, e tantomeno la fabbricazione dei metalli. Usavano ancora strumenti di pietra, molto affilata e spesso usata su lance e frecce, ma pur sempre pietra. Una popolazione khoesān, i Khoekhoen (che significherebbe "la vera gente" nella loro lingua), migrati in Sudafrica da nord forse intorno alla metà del I millennio a.C., erano allevatori (molto probabilmente appresero l'allevamento dopo essere entrati in contatto con popolazioni pastorizie di origini cuscitiche dell'Africa centro-orientale, e poi le migliori condizioni di vita garantite dall'allevamento gli permisero di espandersi e migrarono a sud fino in Sudafrica), mungevano le loro bestie e vivevano in tribù semi-stanziali che si basavano ancora comunque sulla raccolta di frutti e vegetali (e non sull'agricoltura) e sul baratto (di sicuro non usavano denaro). Tutti gli altri khoesān sudafricani, che si chiamavano Sān (sān nella loro lingua significa semplicemente "raccoglitore"), dal canto loro avevano perfino rifiutato di adottare l'allevamento come invece avevano fatto i loro cugini Khoekhoen, e vivevano di caccia e raccolta, prevalentemente in stile nomade, come i loro antenati di centinaia di migliaia di anni prima, tranne per il fatto che avevano affinato qualche tecnologia, come appunto arco e frecce (usando tipicamente frecce avvelenate, ricavando il veleno da una pianta indigena), o tecniche particolari di fusione delle ocre o di tessitura dei vegetali per creare vesti e giacigli, e anche un gusto artistico particolare come testimoniano le decorazioni di gusci d'uova di struzzo e le pitture rupestri. Tutte cose che abbiamo visto nel precedente post. Ma, come si capisce, era un mondo assolutamente diverso da quello dei grandi architetti di piramidi e templi dell'antico Egitto, o dei grandi filosofi greci e cinesi, o della grande potenza militare dei persiani. Era un mondo che tutti gli altri popoli, non solo del Mediterraneo ma probabilmente anche di altre regioni africane, avrebbero definito "primitivo".
Ma è davvero possibile che queste terre, per quanto lontanissime, fossero rimaste così isolate in un mondo che cominciava a essere sempre più interconnesso? C'è un racconto del greco Erodoto che parla di antichi navigatori fenici che, incaricati dal faraone egiziano dell'epoca, nel VII-VI secolo a.C. sarebbero riusciti a circumnavigare l'Africa. Se così fosse, le coste sudafricane sarebbero state costeggiate da navi egizie già a quell'epoca. E poiché l'equipaggio, secondo il racconto di Erodoto, si fermava periodicamente anche per lunghi periodi in attesa della stagione propizia per ripartire (l'intero viaggio di circumnavigazione sarebbe durato tre anni), sbarcando in luoghi adatti dove sostava addirittura per periodi così lunghi da avere il tempo di seminare e attendere il raccolto, si può dire che l'agricoltura forse venne introdotta in Sudafrica, in modo del tutto estemporaneo, da navigatori fenici di passaggio! Chissà, sempre se sia vero questo resoconto, se quegli antichi viaggiatori avvistarono le popolazioni indigene Khoesān o no. Quelli erano però gli ultimi tentativi dell'antico Egitto di rimanere una grande potenza, dopodiché, presto, arrivò la decadenza e l'addio per sempre a grandi spedizioni. Ma se davvero una tale spedizione avvenne, è possibile che nei secoli successivi, soprattutto durante l'espansione dell'Impero Romano, qualcuno pensasse di riprovare a navigare lungo le coste dell'Africa fino a sud dell'equatore? Probabilmente si: Claudio Tolomeo racconta di un mercante greco-romano di nome Diogene, che a cavallo tra il I e il II secolo d.C. navigò partendo dalle rotte commerciali del Mar Rosso e forse sarebbe arrivato fino alle coste delle attuali Kenya o Tanzania, per poi inoltrarsi all'interno fino ad avvistare i cosiddetti "Monti della luna", forse il Kilimangiaro.
Ma arrivare fino alla parte meridionale del continente africano, quello era un altro paio di maniche. Quel che è certo, secondo le scoperte archeologiche, è che alcuni popoli in Africa centro-settentrionale (tra cui nelle regioni delle attuali Etiopia e Somalia, o, dall'altra parte, della Nigeria) avevano ormai adottato l'agricoltura e intrapreso commerci con l'area mediterranea o del Medio Oriente. Le civiltà commerciali avanzate africane più "vicine" al Sudafrica erano quelle delle antiche Etiopia e Somalia, popolate da etnie di lingua cuscitica, che trovandosi all'imbocco del Mar Rosso avevano intensi scambi commerciali e culturali con il Mediterraneo e l'Oriente già da molti secoli. Ma queste regioni africane distavano dal Sudafrica più di 4000 chilometri attraverso giungle, savane e deserti, o, se si percorreva la costa, più di 5000 chilometri. E qui in Sudafrica non c'era nulla che potesse suscitare gli appetiti di quelle civiltà: geograficamente e da un punto di vista commerciale, esse appartenevano all'emisfero nord del mondo, in contatto con le grandi aree sviluppate del Mediterraneo, del Medio Oriente e dell'Oriente.
Ma anche in queste remote lande isolate dal mondo doveva prima o poi cambiare qualcosa. E quel qualcosa fu un movimento di popoli africani che dalle regioni centrali del continente migrarono verso sud, a partire da circa il 5000 a.C (ritengono gli studiosi), per arrivare in Sudafrica forse verso il primo secolo dell'era cristiana. Oggi si parla di "espansione bantu", cioè di popoli accomunati dal parlare lingue di ceppo bantu. Etnicamente si parla anche di popoli Nguni. Non si hanno ovviamente fonti scritte che possano confermarlo: né i Khoesān né gli Nguni usavano la scrittura. Ma gli studiosi lo hanno ricostruito da studi linguistici oltre che archeologici.
Gli Nguni di lingua bantu, o i Bantu come più imprecisamente vengono chiamati, non furono un unico popolo che migrò in tutta l'Africa centrale. Ci fu bensì una lingua e cultura bantu, che si diffusero e propagarono a diversi popoli che le fecero proprie. Lo stesso termine "Bantu" non veniva usato da quei popoli per autodefinirsi, ma è stato coniato dagli studiosi del XIX secolo, ricreandolo dalle radici di quella lingua che stavano studiando: "bantu" significherebbe quindi "gente" o "umani" nell'antica lingua bantu (tracce della quale si possono ancora oggi osservare in alcune lingue moderne come lo zulu, dove "abantu" significa proprio "gente").
Questa cultura includeva l'adozione dell'agricoltura e dell'allevamento, e l'utilizzo dei metalli: avevano strumenti e armi in ferro e rame, fatto ormai comune da secoli nell'Africa centrale, ma assolutamente nuovo nella parte più meridionale del continente. Sapevano produrre utensili di terracotta e vivevano in villaggi autosufficienti di capanne di canne e fango, coltivando sorgo e fagioli e allevando bestiame.
Certo, in confronto ai popoli cuscitici dell'Africa orientale, soprattutto quelli vicino alle coste, che avevano contatti commerciali con le navi provenienti dal Mar Rosso, anche questi bantu apparivano "primitivi". Ma in confronto ai Khoesān avevano decisamente una tecnologia superiore. Forse fu proprio per questo che, nel corso del millennio precedente, gran parte delle diverse popolazioni di cacciatori-raccoglitori dell'Africa centrale erano state assimilate a questa cultura, o si erano estinte (i pigmei dell'Africa centrale sono le uniche popolazioni di cacciatori-raccoglitori dell'Africa centrale ad aver mantenuto intatto il loro antico stile di vita fino a oggi). Ora, questi nuovi individui bantu avevano infine raggiunto anche il Sudafrica.
Ma all'inizio, e fino al V secolo, la migrazione fu lenta. Come interagivano i nuovi arrivati di lingua bantu con le popolazioni Khoesān? Gli studiosi ci dicono che i rapporti tra le due diverse etnie molto probabilmente variavano dall'aspro conflitto, a matrimoni misti, a una relazione di tipo rituale (probabilmente nel senso che alcune popolazioni Sān vedevano questi nuovi arrivati come possessori di una potenza superiore, o almeno è quanto sembra da alcune delle loro pitture rupestri). Anche se non abbiamo prove dell'interazione tra tribù bantu e khoesān (alcuni ritengono che le consonanti col click nelle attuali lingue dei discendenti dei bantu, come lo zulu e il xhosa, fossero state prese dalle lingue khoesān, di cui sono un tratto caratteristico, ma non ci sono prove che sia andata così), a medio e lungo termine l'effetto più evidente fu che gli invasori bantu, stanziandosi in aree sempre più vaste, finirono per scacciare i Khoesān verso le regioni interne più inospitali.
Si hanno tracce di scambi commerciali, intorno al VII-VIII secolo, di imbarcazioni arabe sulle coste sudafricane nordorientali: un chiaro segno che su queste coste, a quell'epoca, vivevano popolazioni bantu (abituate a scambi commerciali con altri popoli) e non più solamente popolazioni khoesān.
Per la prima volta nella storia della loro plurimillenaria esistenza, i Khoesān sudafricani venivano in contatto con un popolo diverso, e l'incontro non fu certamente dei migliori. Troppa era la diversità tra loro, gli stili di vita delle due etnie erano incompatibili. Inoltre, questi invasori bantu avevano una cultura dell'espansione e della conquista, almeno dove potevano (non poterono per esempio mai espandersi in Africa orientale, territorio di popolazioni che vivevano con uno stile di vita più sofisticato).
Passarono i secoli. In assenza di fonti scritte non sappiamo cosa successe fino attorno all'anno 1000, ma poco importa. Perché quelle erano popolazioni che non registravano il passare degli anni e gli eventi come facciamo noi. Erano culture che tramandavano le loro conoscenze oralmente di generazione in generazione, mantenendo sempre lo stesso stile di vita. D'altronde, non era ciò che era sempre successo dall'alba della nostra specie, e anche prima?
Ciò che sappiamo è che le popolazioni di cultura bantu, che durante il primo millennio dell'era cristiana affluivano in Sudafrica a più ondate, come abbiamo detto non appartenevano a un unico popolo Bantu, bensì erano diverse popolazioni che condividevano una lingua e una cultura comuni, o perlomeno simili. Alcune di queste popolazioni, antenate degli attuali Nguni (che includono gli attuali Zulu, Xhosa, Swazi e Ndebele), si stabilirono presso le coste orientali. Altre, antenate degli attuali popoli Tswana, Pedi e Sotho (ma "cugine" degli Nguni), si stanziarono sul vasto altopiano dell'interno sudafricano. Altre ancora, antenate degli attuali Venda, Lemba e Tsonga, si fermarono nella regione più settentrionale dell'attuale Sudafrica (regione dell'odierno Limpopo).
Sappiamo anche che in alcune zone dell'Africa australe, tra cui anche in Sudafrica, sono state fatte scoperte sporadiche ma eccezionali di monete tardoromane e bizantine, segno che fin dalle prime immigrazioni bantu, questi nuovi popoli erano in contatto con le direttive commerciali dell'Oceano Indiano.
Legata in qualche modo a queste rotte commerciali è una società che sorse nell'XI secolo nel Sudafrica settentrionale presso i confini con l'odierno Zimbabwe. Era la città-stato di Mapungubwe. Tribù locali si erano aggregate per formare una comunità stanziale più grande, forse a causa dell'incremento di popolazione in quell'area fertile, alla confluenza tra due fiumi (lo Shashe e il Limpopo). Era una comunità basata sull'agricoltura e sul commercio, ma anche sulla stratificazione sociale, con tanto di nobili e di regnanti, una cosa impensabile per le arcaiche comunità khoesān. La ricchezza della classe regnante si alimentava con il commercio dell'oro e dell'avorio proveniente da qualche centinaio di chilometri più a nord (odierno Zimbabwe). L'epoca d'oro del regno di Mapungubwe fu tra il XII e il XIII secolo. Nelle sepolture reali di Mapungubwe sono stati ritrovati addirittura oltre 200 chili d'oro, tra cui bracciali, uno scettro e un poggiatesta, e oggetti di legno rivestito di lamine d'oro, come per esempio alcune statuine raffiguranti rinoceronti. I ricchi venivano sepolti con manufatti di questo tipo, oltre che altri oggetti in rame e con perle di vetro. Un altro fatto assolutamente nuovo per il Sudafrica di allora è che Mapungubwe, situato sulla cima di una collina, aveva mura di pietra che delimitavano certe abitazioni importanti, e l'abitato stesso. Le residenze delle persone importanti erano anche costruite su piani rialzati rispetto al selciato: appare addirittura che il suolo sulla cima della collina, circa duemila tonnellate di terra, fu trasportato lì artificialmente, in epoca peraltro non identificata. Insomma, anche se questa società non usava la scrittura e quindi non abbiamo fonti scritte su di loro, le scoperte archeologiche ci dicono che questa era la prima società dell'Africa meridionale strutturata in maniera altamente gerarchica, addirittura con un rapporto forse sacrale nei confronti della leadership, si ritiene. Inoltre, fatto che ha scompaginato gli studi su Mapungubwe, due degli undici scheletri studiati in loco sono geneticamente appartenenti all'etnia khoesān, ma sono sepolti nello stile bantu (rannicchiati abbracciandosi le ginocchia sul petto, e rivolti a ovest), e dagli oggetti con cui erano sepolti si capisce che erano di alto rango: forse, chissà, avevano antenati khoesān poi assimilati dai bantu. Comunque è un segno che quella era una società inclusiva, dove probabilmente i bantu avevano assimilato e non distrutto le popolazioni che vivevano in quelle terre prima del loro arrivo.
Nel XIII secolo, il regno di Mapungubwe era un centro di commercio avanzato per quella regione. Attraverso il fiume Limpopo, importava merci ed esportava oro e avorio verso i maggiori centri commerciali della costa sull'oceano (negli attuali Mozambico e Tanzania), dove a quell'epoca commerciavano mercanti arabi e dell'Oriente. Era una società basata su commercio, agricoltura, allevamento (avevano anche cani domestici oltre che bestiame, capre e pecore), manifattura di metalli, e che accumulava ricchezze e raccolto, con una popolazione che, sulla sola collina di Mapungubwe, doveva aggirarsi sui 5000 abitanti. Era insomma qualcosa che in Sudafrica non si era mai visto! Ma proprio quando toccò il suo apice, questa società cominciò il suo declino. Secondo gli studiosi fu un raffreddamento climatico, che portò con sé sempre più pesanti siccità in questa zona, che spinse la popolazione ad abbandonare Mapungubwe nel XIV secolo, lasciandosi dietro solo le ricche sepolture reali. La società di Mapungubwe non si estinse ma si trasferì a nord, dove c'erano terre ancora fertili e dove, si ritiene, contribuì all'espansione del Grande Zimbabwe.
Qui in Sudafrica, decaduto Mapungubwe, la popolazione continuò a vivere con piccole tribù bantu guidate da capi locali. I Khoesān, quelli almeno che volevano mantenere il loro plurimillenario stile di vita da cacciatori-raccoglitori (o al massimo pastori-raccoglitori, nel caso dei Khoekhoen), erano ormai relegati in determinate aree del Sudafrica dove i bantu non erano arrivati a stanziarsi stabilmente, cioè la parte più meridionale e quella più occidentale del Sudafrica. Ma anche le popolazioni bantu, pur vivendo con agricoltura, allevamento e fabbricando metalli (praticamente vivevano nell'età del ferro, come si dice in gergo), si erano per così dire adagiati alla tranquilla vita del mondo sudafricano, isolato dal resto del mondo: non c'erano qui regni centralizzati come in gran parte del resto dell'Africa, solo molte piccole tribù autosufficienti.
Invece, nel resto del mondo, le cose si muovevano sempre più velocemente. Terminato il Medioevo europeo, per gli Europei cominciava l'epoca delle grandi esplorazioni navali. Fu così che, per la prima volta nella storia, navi europee cominciarono ad arrivare fino alle coste sudafricane. I primi furono i Portoghesi. Nel 1488 la spedizione al comando di Bartolomeu Dias, alla ricerca di una via per le Indie, riuscì, dopo terribili tempeste che rischiarono di far disperdere le navi nel mezzo dell'oceano, a toccare le coste più meridionali del continente africano, prima di tornare indietro da dove erano venute. La seconda spedizione, nel 1497, fu quella al comando di Vasco da Gama, che a differenza della precedente riuscì a costeggiare le coste sudafricane da ovest a est, per poi risalire il continente africano a est. Nel Natale di quell'anno i velieri stavano costeggiando le coste sudafricane nordorientali, e per questo motivo Vasco da Gama diede il nome Natal a quelle coste. E quel nome è rimasto fino a oggi: oggi quelle coste fanno parte della provincia sudafricana del KwaZulu-Natal. I marinai portoghesi fecero solo brevi sbarchi sulle coste sudafricane, giusto come soste per rifocillarsi di acqua fresca tra una traversata e l'altra. Nel 1510, di ritorno dall'India diretti verso la loro madrepatria il Portogallo, i velieri al comando di Fancisco de Almeida gettarono le ancore presso la baia del Capo di Buona Speranza (nome datogli dal re del Portogallo perché oltrepassato quel promontorio si apriva la via tanto agognata verso le Indie), una baia non ideale per l'approdo a causa delle forti correnti, ma tuttavia il meglio che si potesse trovare lungo le coste sudafricane, rocciose e senza baie. Era una breve sosta mirata a rifocillarsi di acqua fresca, prima della traversata finale verso casa. Là incontrarono un clan di khoekhoen, il clan Goringhaiqua. Forse nel 1510 non era la primissima volta che questi khoekhoen vedevano navi portoghesi di passaggio; ma anche così, chissà cosa i Goringhaiqua pensarono di questi "alieni" mai visti prima a memoria d'uomo sulle loro terre, dalla pelle scolorita e che parlavano un linguaggio totalmente incomprensibile, dalle vesti e dagli strumenti spaventosamente elaborati, e che per giunta arrivavano dal mare, a bordo di giganteschi legni galeggianti, invece che camminando via terra! In ogni caso, dopo un inziale shock culturale e probabilmente molta diffidenza, i soldati portoghesi e un gruppo di guerrieri Goringhaiqua (si, anche i pastori khoekhoen avevano i loro guerrieri) si approcciarono per barattare ciò che ciascuno aveva. I portoghesi avevano tabacco e strumenti in ferro e rame, i khoekhoen sapevano dove procurarsi acqua potabile e avevano la carne fresca delle loro mandrie di bestiame. Dopo degli iniziali scambi amichevoli, pare che un portoghese cercò di imbrogliare un guerriero khoekhoen, che per tutta risposta lo prese a bastonate. Forse per vendetta, il giorno seguente (o il giorno stesso) alcuni membri dell'equipaggio di Almeida fecero una visita al villaggio khoekhoen, poco distante, e fecero razzia del loro bestiame e forse anche di alcune donne e ragazzine con la forza, tant'è che ci scappò anche un morto. Subito l'affronto, i guerrieri khoekhoen pianificarono il contrattacco. De Almeida era rimasto sulla spiaggia con il suo manipolo di un centinaio di uomini o poco più, senza nemmeno le scialuppe, che erano andate a fare rifornimenti di acqua al fiume. I Goringhaiqua decisero di attaccare lì. Moderne ricerche basate sulle fonti portoghesi hanno ricostruito che un centinaio di guerrieri khoekhoen armati di lance attaccarono con tattiche di guerra i soldati spiaggiati, uccidendo de Almeida e 64 dei suoi uomini, di cui 11 capitani. Il corpo di Almeida fu ritrovato più tardi quel pomeriggio e sepolto insieme agli altri presso la costa, dove oggi si trova Città del Capo. Il resto dell'equipaggio si guardò bene dal dichiarare guerra ai khoekhoen, e levò tristemente le ancore per tornare in Portogallo. Due anni dopo, nel 1512, un altro veliero portoghese fece scalo per rifornimenti nello stesso luogo. A bordo c'erano anche un capitano della spedizione di Almeida e un parente di uno dei soldati uccisi. Sul luogo della sepoltura decisero di erigere una croce, che fu il primo memoriale europeo in terra sudafricana.
Ironia della storia umana, quegli europei che occasionalmente cominciavano, una volta ogni paio d'anni, a sbarcare sul suolo sudafricano per poi ripartire senza lasciare insediamenti, erano discendenti di Homo sapiens partiti proprio dall'Africa meridionale 200.000 anni prima (come abbiamo visto nel post precedente). A pensarci bene, ci era voluto un tempo compreso tra i 400.000 e i 200.000 anni fa alla nostra specie per evolversi in quello che è oggi geneticamente, senza che ciò comportasse grandi cambiamenti nello stile di vita. Ma nello stesso lasso di tempo, da 200.000 anni fa all'ultimo mezzo millennio della nostra storia umana, è avvenuta un'evoluzione tecnologica incredibile, mai vista non solo sulla Terra, ma, almeno per quel poco che ne sappiamo oggi (in attesa di eventuali smentite future), nemmeno nel resto dell'universo. Non si ragionerà mai abbastanza sull'incredibile accelerazione tecnologica di cui la nostra specie umana è stata protagonista.
Ma torniamo a noi. Nel Cinquecento e Seicento, mentre i primi europei cominciavano a costeggiare via nave le coste sudafricane, molto più all'interno nel nord del Sudafrica si sviluppava una nuova civiltà autoctona, molto originale. Era la civiltà Bokoni. I Koni, secondo recenti studi, erano diverse popolazioni bantu che confluirono in una sola regione (attuale Mpumalanga, nel Sudafrica del nord) e, fondendosi le une con le altre, finirono per diventare una popolazione con proprie caratteristiche. Il nome Koni è stato dato loro in realtà in epoca moderna, affidandosi a tradizioni orali che tramandavano il ricordo di "gente Koni". Nel XVI-XVII secolo si organizzarono su un altopiano del Mpumalanga e cominciarono a costruire innovative coltivazioni a terrazza a forme circolari, delimitate da muriccioli in pietra. Anche le stradine (o sentieri) che collegavano tra loro i campi circolari e le abitazioni, erano delimitate da muretti in pietra, probabilmente per evitare che il bestiame che circolava andasse a finire nelle terrazze coltivate, e per "incanalarlo" invece verso i campi riservati a pascolo. Era anche una società metallurgica, per così dire, come gran parte delle tribù bantu. Forgiavano ferro e rame per fabbricare armi e strumenti.
Un'altra società autoctona che ebbe un certo successo, sempre nelle regioni settentrionali dell'interno del Sudafrica, fu a partire dal XV-XVI secolo quella di Kaditshwene, un centro che fungeva da capitale culturale delle genti Bahurutshe, una delle tribù bantu di etnia tswana. Fondata presso un sito di depositi di ferro e rame, Kaditshwene divenne un centro di manifattura dei metalli e di commercio. Divenne a tal punto un punto di riferimento per quell'area, che arrivò ad avere sui ventimila abitanti, un caso eccezionale nel Sudafrica precoloniale!
Questi esempi di società autoctone locali sono state scoperte per caso in epoca moderna dai colonizzatori. Ma chissà se c'erano altre comunità dai tratti originali che non sono state scoperte e ormai non verranno scoperte più. Comunque, al momento dell'arrivo dei colonizzatori, gran parte del Sudafrica settentrionale e orientale era cosparso di una miriade di tribù bantu, a volte in relazioni tra loro di commercio, a volte di guerra. Il resto del Sudafrica era popolato dai Khoesān.
Per tutto il Cinquecento e la prima metà del Seicento navi portoghesi, e in seguito anche inglesi, francesi, olandesi e danesi, percorrevano ormai il tratto di oceano a sud del Sudafrica, nelle loro rotte verso l'Asia. Spesso, durante il viaggio, sostavano temporaneamente nella baia del Capo di Buona Speranza o nella baia di Saldanha Bay, sulla costa sudoccidentale del continente, per fare rifornimento di acqua. I navigatori europei, però, di qualsiasi nazionalità fossero, non erano interessati a queste coste che a loro apparivano rocciose, selvagge e desolate, completamente senza porti commerciali e abitate solo da indigeni primitivi.
Ma tutto questo sarebbe cambiato dopo il 1647. In quell'anno, un equipaggio olandese stava facendo sosta per rifornimenti presso il Capo di Buona Speranza, ma una nave rimase incagliata nelle basse acque della piccola baia presso la Table Mountain (collina chiamata così per la sua curiosa cima piatta, come una tavola) e dovette essere abbandonata. Buona parte del suo ricco carico però (spezie e ricche mercanzie dall'Asia) era salvabile. Quindi si decise che, mentre le altre navi sarebbero ripartite per l'Olanda, 62 membri di quella nave sarebbero rimasti lì a proteggere il carico fino a quando nuove navi fossero tornate a riprenderli. Stettero lì circa un anno, trasportando il carico a terra e costruendo un rudimentale accampamento. La loro esperienza con i Khoekhoen fu decisamente migliore di quella che avevano avuto i portoghesi di Almeida quasi un secolo e mezzo prima. Con loro barattarono carne fresca, e poi fecero anche esperienza di caccia loro stessi. Quando un anno dopo, nel 1648, un'altra spedizione olandese passò a recuperarli, questi naufraghi fecero una petizione affinché si potesse stabilire un piccolo insediamento presso quella baia, come punto di appoggio per le spedizioni di passaggio e che intrattenesse relazioni oneste e pacifiche con gli indigeni della zona, come avevano fatto loro. Fu così che nel 1652 la Compagnia olandese delle Indie orientali inviò una nuova spedizione, al comando di Jan van Riebeek, con l'esplicito compito di fondare una stazione di scalo e rifornimento per le navi olandesi nella rotta da e verso le loro colonie nelle "Indie orientali" (attuali Indonesia e Malaysia). Sarebbe diventato il primo nucleo di Città del Capo, il primo insediamento europeo in Sudafrica. Ma qui cominciava la storia degli Europei in Sudafrica, che potrò eventualmente affrontare un'altra volta. Questo post invece è dedicato ai Bantu. Ma che fine avevano fatto le tribù bantu, mentre gli Europei colonizzavano la punta meridionale sudafricana?
Come abbiamo detto prima, le varie popolazioni di diverse etnie che condividevano lingua e cultura bantu, popolavano da secoli ormai l'area del Sudafrica settentrionale e orientale. Erano miriadi e miriadi di diverse tribù, che afferivano a diverse etnie. Vivevano tutte con uno stile di vita da età del ferro, cioè erano strutturate in maniera tribale con un capo tribù, coltivavano la terra e allevavano capi di bestiame, producevano strumenti di terracotta, fabbricavano o barattavano metalli che venivano utilizzati per strumenti o armi, non usavano la scrittura e tramandavano oralmente le proprie conoscenze, come avevano fatto i loro antenati da sempre. Qualcuna di queste tribù si distingueva per tratti di originalità o di ricchezza, come per esempio i Bahurutshe o i Koni, che abbiamo visto prima. Alcune tribù erano più dedite al commercio o al baratto di altre. Ma questo equilibrio, che durava sostanzialmente invariato da un millennio, era destinato a crollare presto.
Il fattore scatenante fu l'incremento demografico. Secondo recenti teorie, una importante concausa iniziale fu l'importazione del mais sulle coste del Mozambico da parte dei Portoghesi. Il mais si dimostrò una coltivazione molto più produttiva di quelle locali, e che richiedeva anche meno manodopera per la sua piantagione e la sua cura. Questa nuova coltivazione, introdotta dalla fine del Seicento, nel corso di un secolo produsse un incremento demografico della popolazione costiera, dal Mozambico al Sudafrica nordorientale. Allo stesso tempo però, il mais richiedeva anche una maggior quantità di acqua e la disponibilità di grandi aree di terreno adatto alla piantagione, rispetto alle altre coltivazioni. Nei primi anni dell'Ottocento si verificò una siccità nel Natal, la regione costiera del Sudafrica nordorientale. La popolazione delle numerose tribù locali, spesso in forte rivalità tra loro, a causa di questa siccità si venne a trovare improvvisamente in situazione di sovrannumero rispetto alle risorse agricole venute a mancare. Fu come una miccia che fece esplodere lo scontro, che covava sotto la cenere.
In tutto questo va detto che dalla fine del Settecento le coste del Natal cominciavano a veder apparire talvolta navi inglesi in missioni esplorative, dal momento che nel frattempo il Sudafrica meridionale, con capitale Città del Capo, era diventato colonia inglese (come ciò avvenne non riguarda questo post, magari un post futuro). Un giorno dei primi anni dell'Ottocento, si dice, una spedizione di avventurieri inglesi di passaggio venne notata da un capotribù di nome Dingiswayo, il quale studiò i fucili e l'assetto militare di quella pattuglia esplorativa e decise di cercare di strutturare il proprio clan su quel modello. Dingiswayo era appena asceso a capo di una coalizione che includeva circa una trentina di tribù bantu di etnia Nguni, chiamata confederazione Mtetwa (mtetwa in bantu significa "colui che governa"). L'ambizioso Dingiswayo si mise in testa di portare la confederazione Mtetwa a soggiogare i popoli vicini per primeggiare sulla regione, sul modello di ciò che aveva fatto pochi decenni prima il clan nguni degli Swazi, poco più a nord, il cui capotribù si era imposto sugli altri clan confinanti fondando il regno dello Swaziland. Dingiswayo strutturò i guerrieri della confederazione Mtetwa secondo una catena di comando e si preparò a portare guerra nella regione.
Intorno al 1810 Dingiswayo stipulò un'alleanza tra gli Nguni della confederazione Mtetwa e gli Tsonga del nord, alleanza attraverso cui la confederazione cominciò a commerciare lucrosamente in avorio e altri beni con le colonie portoghesi delle coste mozambicane. Forse fu grazie a questo commercio che Dingiswayo riuscì a fornire regolarmente i suoi guerrieri di fucili, una novità questa per le tribù bantu sudafricane. Contemporaneamente, cominciò ad attaccare le tribù vicine che si mantenevano indipendenti dalla confederazione Mtetwa, affidando i raid ai suoi ufficiali, tra cui si distinse il giovane Shaka. In quello che si ritiene uno dei primi di questi raid, Shaka attaccò la tribù amaNgwane, espellendone gli abitanti da quel territorio. Gli amaNgwane scapparono vagando in altri territori, venendo a scontrarsi con altre tribù in un effetto domino che si ripeterà sempre di più negli anni successivi, e di cui parleremo tra poco.
La nuova aggressiva politica della confederazione Mtetwa intralciava i commerci e gli interessi di una potente tribù delle colline poco più a nord (proprio a metà strada tra la confederazione Mtetwa e le colonie portoghesi), gli Ndwandwe. Non passò molto, e tra Mtetwa e Ndwandwe fu guerra. Ma in un tentativo di invasione del territorio nemico, nel 1817 Dingiswayo fu catturato e decapitato per ordine del re degli Ndwandwe, Zwide. Con la morte di Dingiswayo la confederazione Mtetwa rischiò di sfaldarsi, ma le sue tribù si riorganizzarono affidandosi alla guida di Shaka, il più in gamba tra i generali di Dingiswayo. Shaka kaSenzagakhona (figlio di Senzagakhona) era il capo di un piccolo clan ininfluente, gli Zulu. Ma aveva dimostrato il suo valore di guerriero sul campo e adesso era il suo turno di salvare la confederazione dalla sconfitta. Avendo imparato da Dingiswayo, Shaka potenziò ancora di più l'assetto militare dei suoi guerrieri. Fece costruire delle nuove armi: una lancia corta con una lunga punta, e un grande e pesante scudo di cuoio. Il lato sinistro dello scudo serviva per agganciare il nemico, per poi pugnalarlo con la destra alle costole. Secondo le fonti tramandate oralmente, Shaka addestrava i suoi guerrieri a lottare a piedi nudi e a percorrere correndo 50 miglia su terreni caldi e rocciosi in meno di 24 ore; inoltre impose un sistema di vita comunitaria basato sul celibato per i guerrieri. La ferrea disciplina e il combattimento corpo a corpo caratterizzavano quindi il suo esercito, visto che anche l'importazione dei fucili, fortemente voluta da Dingiswayo, non poteva avvenire più così facilmente in una situazione di guerra permanente in cui la confederazione Mtetwa veniva tagliata fuori dalle vie commerciali che conducevano alle colonie portoghesi.
Shaka era il nuovo capo della confederazione Mtetwa, ma soprattutto era il capotribù degli Zulu, e in un mondo tribale come quello dei bantu, la propria tribù viene prima di tutto. Fu così che, ai nemici sconfitti, Shaka concedeva la possibilità di unirsi agli Zulu e i nuovi soldati conquistati venivano così considerati zulu a tutti gli effetti. Le tribù che invece rifiutavano di sottomettersi venivano scacciate dalle loro terre o sterminate: questa sorte toccò a ben una sessantina di tribù nel Natal, nel volgere di pochi anni. Appena tre anni dopo l'uccisione di Dingiswayo, i rapporti di forza con i Ndwandwe si erano ormai capovolti: nel 1820 Shaka e il suo esercito zulu sconfissero definitivamente il re Zwide e distrussero la capitale degli Ndwandwe. Ora Shaka aveva conquistato il predominio assoluto sulla regione. E grazie a lui gli Zulu, prima un piccolo clan, erano diventati ora il gruppo dominante nel nordest del Sudafrica, una vera e propria nazione. Shaka, lasciata perdere la confederazione Mtetwa, strutturò i suoi domini come un regno zulu, di cui lui e i suoi successori erano i regnanti assoluti. Ora il regno zulu si estendeva su 2000 chilometri quadrati, con 250.000 sudditi. Ma la spietatezza con cui venivano trattate le tribù ribelli (pare che gli Zulu consentissero solo alle donne e ai bambini di rimanere, mentre i guerrieri venivano uccisi o si davano alla fuga, sfogando a loro volta su altre tribù il medesimo trattamento che loro avevano subìto) provocò un effetto a valanga che ebbe conseguenze non solo nella regione del Natal, ma anche al di fuori: fu il fenomeno denominato Mfecane.
Si ritiene che il termine mfecane derivi da una parola zulu che raggruppa i significati di "schiacciare", "disperdere con la forza" e "migrazione forzata". Il termine venne introdotto solo nel Novecento per descrivere il periodo di disordini e migrazioni di popoli avvenuti nella prima metà dell'Ottocento. Come abbiamo visto, la tattica guerresca di Shaka, prima come generale di Dingiswayo e poi come capo militare, era di assalire i clan ribelli e disperderne con la forza i suoi abitanti. Alcuni studiosi ritengono che in genere le donne e i bambini venissero tenuti, per essere assimilati agli Zulu, mentre ad andarsene fossero i maschi adulti sopravvissuti. Questa tattica sistematica mise in movimento prima decine, e poi centinaia e centinaia di profughi guerrieri, che scappando dagli Zulu andavano a scontrarsi con altre tribù. Questi profughi guerrieri applicavano spesso la medesima tattica che loro avevano subito da parte di Shaka: assalivano altre tribù costringendole ad andarsene per occupare il loro territorio, e queste altre tribù finivano per scontrarsi con altre alla ricerca di un nuovo luogo dove insediarsi. Alla fine si ebbero effetti a catena devastanti, e tutta la regione del Sudafrica nordorientale fu percorsa da guerre tribali e da migrazioni di popoli. Bisogna tornare indietro di un millennio, all'epoca delle grandi migrazioni bantu, per osservare un qualcosa di simile nell'Africa australe. Si stima che le vittime dello mfecane si aggirino tra 1 milione e 2 milioni di morti in appena un quarto di secolo (più o meno dal 1815 al 1840).
Non tutto fu una catastrofe. I clan Xhosa per esempio, di etnia Nguni (come il clan Zulu e gli altri della ex confederazione Mtetwa) che vivevano sulle coste orientali più a sud (e che in quell'epoca già dovevano far fronte all'espansionismo degli Inglesi da Città del Capo), accolsero i profughi in fuga da Shaka e li integrarono pacificamente nella loro società. Ma altrove non andò così. Alcune tribù migrarono anche molto lontano, fino agli attuali Mozambico, Zimbabwe, Zambia e Malawi, portando nuovi scontri dove arrivavano. I clan delle montagne dei Drakensberg si allearono tra loro in funzione anti-Zulu e si trincerarono sulle loro inaccessibili montagne, fondando il regno del Lesotho. Le tribù bantu di etnia Tswana a cavallo tra Sudafrica e attuale Botswana (tra cui anche i Bahurutshe, cui abbiamo accennato prima come una delle società autoctone precoloniali), già da decenni avevano cominciato a sperimentare scontri a causa delle risorse venute a scarseggiare; ora l'effetto domino dello mfecane raggiunse anche quella regione, pur essendo lontana dai domini zulu.
Chi semina vento raccoglie tempesta, si dice. Così avvenne per Shaka, che venne assassinato a circa 40 anni d'età da un complotto ordito da due suoi fratellastri. Il fratellastro Dingane si prese il dominio sugli Zulu, e quello zulu divenne un vero e proprio regno ereditario, il più forte della regione. Ma il tessuto sociale precedente, basato sul sottile equilibrio tra una miriade di tribù, era stato disintegrato dalla mfecane. Secondo alcuni storici, questo favorì ancor più la colonizzazione da parte degli Inglesi. Il regno zulu (o impero zulu, come qualcuno lo chiama) rimaneva nella regione l'unico interlocutore dei nuovi aspiranti colonizzatori, e il suo atteggiamento bellicoso non giocava certo a suo favore. Gli Zulu infatti, finendo per scivolare nello scontro a causa di giochi diplomatici falliti, fecero il gioco degli Inglesi, che in quel periodo storico erano l'impero più potente del mondo e avevano tutto da guadagnare in uno scontro diretto. Qui la farò breve, essendo argomento che sarebbe da inquadrare nel Sudafrica coloniale, ma basti dire che prima della fine dell'Ottocento le popolazioni native del Sudafrica, khoesān o bantu che fossero, inclusi gli Zulu, vivevano ormai in una colonia inglese e in parte in una colonia boera (i Boeri erano i discendenti dei coloni olandesi di Città del Capo, migrati nelle regioni interne del Sudafrica).
Con buona pace dei Khoesān, che si erano ritirati nelle zone più remote e desertiche, in gran parte oltre i confini della Namibia e del Botswana, oppure erano stati "assimilati" andando a ingrossare le fila di quella casta sociale meticcia che poi sarebbe stata pesantemente oppressa durante il regime di apartheid, le loro vaste e ricche terre ancestrali che per centinaia di migliaia di anni erano rimaste isolate dal mondo, alla fine erano state invase, del tutto all'improvviso, senza preavviso, dalla modernità. Oggi rimangono poche migliaia di Sān "puri" (non mescolatisi con altre genti), in comunità isolate prevalentemente in Botswana.
E i popoli bantu? Nel Novecento hanno subito sulla propria pelle le discriminazioni da parte del regime razziale dei governi sudafricani bianchi, l'apartheid. Ma dopo il 1994, con la nascita della democrazia in Sudafrica, hanno riacquistato la libertà e per loro si è aperta una nuova epoca. Oggi in Sudafrica, soprattutto dopo la fondazione dell'Unione Africana nel 2002, si parla di nuovo panafricanismo e di agenda politica di black power, cioè di trasferire sempre più alla popolazione nera il potere decisionale ed economico del loro Paese. Questa, nonostante tutte le crisi economiche e i cambiamenti degli assetti socioeconomici precedenti che ciò comporta e comporterà, è in sostanza la nuova "primavera nera" dei popoli bantu, che giunsero per la prima volta in Sudafrica un millennio e mezzo di anni fa. Oggi non più divisi in tribù, ma uniti in un unico Paese, la Repubblica del Sudafrica.
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