mercoledì 16 dicembre 2015

Licio Gelli, emblema dell'Italia passata, presente e futura?


Ci sono personaggi la cui storia non andrebbe mai dimenticata, per il bene dell'intera comunità di un Paese, e non è un'esagerazione. Uno di questi è Licio Gelli, morto ieri a 96 anni e otto mesi d'età nella sua villa nei pressi di Arezzo.
Pur non avendo mai ricoperto cariche politiche, Gelli fu soprannominato "Burattinaio della Nazione", e il suo nome comparve nelle inchieste su alcune delle vicende italiane più drammatiche dell'ultimo mezzo secolo: dal "piano di rinascita democratica" della loggia massonica P2, collegato all'Operazione Gladio, al crac Ambrosiano, alla strage di Bologna. Viene dipinto dai media come una sorta di Blofeld, il personaggio fittizio a capo della SPECTRE nella saga di James Bond, e secondo alcuni biografi avrebbe più responsabilità che chiunque altro nell'aver orchestrato dietro le quinte i destini dell'Italia per quasi mezzo secolo, forse più di Giulio Andreotti, decisamente molto di più di Silvio Berlusconi.

Nato nel 1919 a Pistoia figlio di un facoltoso proprietario terriero, fu fin da giovanissimo un entusiasta fascista e a diciott'anni si arruolò volontario per la guerra civile spagnola in aiuto delle truppe del generale Franco. In quella guerra perse il fratello.
Tesserino che attesta il ruolo di Licio Gelli
come ispettore del PNF, a soli 22 anni
Tornato a Pistoia, pur avendo solo la licenza elementare diventò impiegato del Gruppo universitario fascista. Nel 1940 pubblicò un libro sulla sua esperienza di Spagna, e il suo zelo gli fece fare strada fino a diventare ispettore del Partito Nazionale Fascista. A soli 23 anni, in quel ruolo gli fu affidato
l'incarico (in piena seconda guerra mondiale) di trasportare in Italia il tesoro requisito a re Pietro II di Iugoslavia: 60 tonnellate di lingotti d'oro, 6 milioni di dollari, 2 milioni di sterline, 2 tonnellate di monete antiche. Quando cinque anni dopo il tesoro venne restituito alla Iugoslavia, mancavano 20 tonnellate di lingotti d'oro. Si ipotizza che Gelli li avesse nascosti e che le sue fortune future provenissero da quel ricchissimo bottino. Un rapporto della Guardia di Finanza del 1974 parlerà di "una solida situazione patrimoniale di cui non si conoscono le origini".
Ma forse Gelli non aveva nemmeno bisogno del denaro per fare strada, aveva un'abilità innata. Dopo l'8 settembre 1943 divenne un ufficiale della Repubblica nazifascista di Salò. Poi, quando la guerra era ormai perduta, cominciò a fare il doppio, anzi triplo gioco: pur essendo ancora un repubblichino di Salò, aiutò i partigiani fornendo loro informazioni sulle imboscate naziste e dando una mano nella liberazione di prigionieri politci, e quando gli Americani si apprestarono a sbarcare in Sicilia li aiutò fornendo loro informazioni dall'interno del sistema fascista che stava crollando.

Grazie a queste sue attività su diversi fronti, per diversi anni dopo la fine della guerra rimase in contatto con le agenzie di intelligence americane e britanniche, e allo stesso tempo anche con i servizi segreti di uno Stato del blocco comunista, almeno fino agli anni '50 inoltrati. Dal 1948 al 1958 fu anche autista e portaborse di un deputato democristiano.
Gelli (al centro) con Andreotti (a destra)
all'inaugurazione dello stabilimento
Permaflex di Frosinone
Nel 1956 diventò direttore commerciale della Permaflex di Frosinone. Essendo in area territoriale della Cassa per il Mezzogiorno, durante la sua direzione lo stabilimento vide un via vai di politici, ministri, vescovi e generali. Conobbe personalmente Giulio Andreotti, che essendo stato il "delfino" di Alcide De Gasperi aveva già allora scalato i vertici della politica e che in quegli anni ricoprì in successione gli incarichi di ministro dell'Interno, di ministro delle Finanze, di ministro della Difesa. Fu una conoscenza che a Gelli sarebbe tornata utile.

Nel 1963 Gelli si iscrisse alla massoneria, in una loggia di Roma, ed è lì che puntò, per scalare il potere. Da sempre estimatore e amico (così si definiva lui) del generale e presidente argentino Juan Domingo Peron, nel 1974 fu addetto commerciale dell'ambasciata argentina presso il governo italiano. Si ispirò al regime autoritario peronista quando, divenuto nel 1975 capo (Maestro Venerabile nella terminologia dei massoni) della loggia massonica P2 (Propaganda 2), elaborò privatamente e segretamente insieme al politico democristiano Francesco Cosentino e altri, un "piano di rinascita democratica". Nella sua visione, era necessario un piano di modifiche costituzionali che portassero a uno Stato più saldo, con accordi bicamerali tra partiti, controllo della stampa, riforma della magistatura, tra i punti principali. Questo obiettivo era condiviso anche dall'intelligence americana, attraverso l'Operazione Gladio, una struttura clandestina promossa dalla NATO e finanziata in parte dalla CIA allo scopo di contrastare l'influenza comunista in Europa. Pare che Gelli fosse in contatto e operasse anche per conto dell'Operazione Gladio.

Fatto sta che Gelli, proponendo la P2 come un circolo di affari politici a imprenditori, ufficiali, politici stessi, fece entrare come firmatari di questo piano nomi eccellenti e meno eccellenti (tra loro anche quello di Berlusconi). Come dichiarò molti anni dopo lo stesso Gelli: "Con la P2 avevamo l'Italia in mano. Con noi c'era l'Esercito, la Guardia di Finanza, la Polizia, tutte nettamente comandate da appartenenti alla Loggia". Attorno alla P2 cominciarono a girare affari sempre più grossi, affari sporchi, in cui entrò a piene mani anche la mafia. Uno di questi fu il giro che portò al crac del Banco Ambrosiano. Il finanziere Michele Sindona e il banchiere Roberto Calvi erano entrambi affiliati alla P2. Entrambi, e pure Gelli, avevano investito denaro sporco nello IOR (la banca del Vaticano) e nel Banco Ambrosiano per conto del boss mafioso Calò. La tragedia dell'omicidio di Calvi e altre trame nascoste dalla mafia e dalla politica furono il frutto di questi affari sporchi.
Nei turbolenti anni '60 e '70, l'Operazione Gladio per quanto riguardava l'Italia venne portata avanti clandestinamente anche con propositi eversivi di capovolgere con la violenza gli assetti costituzionali, per instaurare uno Stato più autoritario (vedi il caso del fallito Golpe Borghese). Il 2 agosto 1980 avvenne la strage alla stazione di Bologna che uccise 85 persone. Gli esecutori materiali furono dei militanti neofascisti. I mandanti non furono mai scoperti ma furono rilevati collegamenti con i servizi segreti deviati e la criminalità organizzata. Gelli insieme ad altri venne condannato a 10 anni di carcere per aver depistato le indagini.

Nel 1981, nell'ambito dell'inchiesta condotta sulle vicende di Michele Sindona, i magistrati Colombo e Turone scoprirono durante una perquisizione i documenti della loggia P2. La lista P2 fu divulgata dai media e divenne uno scandalo: includeva l'intero gruppo dirigente dei servizi segreti italiani, due ministri e molti parlamentari, industriali, e anche Vittorio Emanuele di Savoia, unico figlio maschio dell'ultimo re d'Italia. L'Ordine della massoneria italiana decretò l'espulsione di Gelli, e la magistratura ne ordinò l'arresto. Gelli fuggì in Svizzera, dove fu arrestato mentre tentava di ritirare decine di migliaia di dollari a Ginevra. Ma dopo poco riuscì a evadere e fuggì in Sudamerica. Ma nel 1987 tornò in Europa, si costituì e venne messo agli arresti domiciliari.

Nonostante la sua situazione agli arresti domiciliari, Gelli pubblicò un sacco di libri e negli ultimi suoi anni di vita, durante l'epoca dell'ultimo Governo Berlusconi (unico leader politico che egli ha stimato nei suoi ultimi anni), l'ormai anziano Gelli ha rilasciato molte interviste televisive e addirittura ha condotto un suo programma TV sulla rete Odeon, nel 2008, programma in cui Gelli rivisitava dal suo punto di vista la storia italiana dall'epoca del fascismo agli anni '80 (anni in cui egli uscì di scena dal potere). Insomma, una "riabilitazione" di un tale personaggio, che la dice lunga sulla capacità degli Italiani di dimenticare e di "perdonare" anche i peggiori misfatti.

Nel 2013 la sua residenza, Villa Wanda, venne messa sotto sequestro preventivo a causa di un'inchiesta sull'evasione per 17 milioni di euro di tasse per cui erano indagati Gelli e la sua famiglia. Ma nel gennaio di quest'anno il processo si è chiuso con la prescrizione e la villa è stata dissequestrata. Gelli aveva comunque continuato a viverci anche nel frattempo, sempre agli arresti domiciliari. Ed è lì che ieri è morto.

Non ho elencato tutti gli affari e gli scandali che girarono attorno alla P2, anche perché sono intrecci complicati e avvolti in buona parte da omertà e misteri che, con la morte di tutti i protagonisti, non verranno più risolti.
Ma, bisogna dire, diversi punti che costituivano il "piano di rinascita democratica" sono stati veramente realizzati dalla classe politica attuale, negli ultimi vent'anni, e altri punti stanno venendo discussi o approvati. Che significa questo? Che nonostante lo scandalo pubblico di allora, una parte della classe politica (quella che ha detenuto il potere per gran parte degli ultimi vent'anni) ha fatto proprio il piano previsto dalla P2. Lo stesso Gelli, in un'intervista dell'anno scorso, vedeva nelle attuali riforme politiche in atto alcune somiglianze con quelle proposte da lui ai suoi tempi.
Che dire? Sta agli Italiani informarsi sulla storia passata e non dimenticarla. Quelli che detengono le chiavi del potere non lo faranno per loro, di certo.

lunedì 23 novembre 2015

Ubuntu: humanity


Last week was on stage at the Playhouse in Durban an opera, newly written, accompanied by our orchestra. Its title is Ubuntu. It is about South Africa's struggle and suffering during apartheid.

Thinking about hate, ideological clash, violence, that are spreading in the world, it occurred to me that the word ubuntu in bantu languages (sub-Sahara African languages) means humanity. An expression says: Umuntu ngumuntu ngabantu, which can be translated as "A person is a person through other people".

Living in South Africa since a couple of years, I realized that black people here have a light attitude towards life: leave on a side the problem, just enjoy, laugh, dance, exchange smiles with other people. To us, Western people, this seems a childish attitude, especially because after a while the problem will come for you.

But, reading the news about crazy terrorists who speak death and mass homicide, and on the other hand articles about the most effective ways for a "payback"...if  it would be better a bombing or an invasion on the ground... Well, I must say that I prefer to spend my average day among people, well maybe a bit ignorant, simple people that care above all to enjoy the basics of life.
This is what we Europeans in South Africa feel: we are far from the rest of the world. Oceans stand between us and other continents, thousands of miles of jungles and deserts divide us from those lands where terrorism commits massacres.
Above all, here pseudo-religious fundamentalism does not exist. For example, Christianity is mixed with tribal superstitions, so there isn't a unique, dogmatic Christianity; as for Islam, it's a little minority and Muslim people in this part of the world they have never had historic-moral-cultural motives to appeal to dogmatic violence.

Of course, Africa experienced unimaginable violence and wars. But I really hope that its best qualities, that I can see every day in Durban (including the pacific coexistence of different ethnic groups), may be able to make Africa the continent of the future. Imagine, humanity saved by the continent most exploited and suffering in all human history!

Ubuntu: umanità


La scorsa settimana è andata in scena alla Playhouse di Durban una nuova opera, appena composta da un teatrante sudafricano, accompagnata dalla nostra orchestra. Si intitola Ubuntu. Parla delle sofferenze che il Sudafrica attraversò per uscire dal regime di apartheid.

Pensando al clima di odio, di scontro ideologico e di violenza che attanaglia il mondo, mi è venuto in mente che la parola ubuntu nelle lingue bantu (africane sub-sahariane) significa, grosso modo, umanità. Un'espressione recita: Umuntu ngumuntu ngabantu, che può essere tradotta come "io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo".

Vivendo in Sudafrica da un paio d'anni, mi sono accorto che la popolazione di colore ha nel suo DNA uno spirito leggero nei confronti della vita: metti da parte il problema, pensa a divertirti, a ridere cantare e ballare, e condividi sorrisi con chi ti sta accanto. A noi occidentali questo atteggiamento sembra molto infantile, soprattutto perché a forza di ignorare i problemi, poi questi ti presentano il conto.

Però leggendo le notizie dei pazzi fondamentalisti che predicano la morte e l'omicidio di massa, e dall'altra parte le analisi a mezzo stampa sui modi più efficaci per una "vendetta"...se sia meglio bombardare o un esercito via terra... Beh, devo dire che preferisco passare le mie giornate tra gente magari un po' ignorante, semplice, che guarda soprattutto a usufruire delle cose basilari della vita.
Questo è il clima che noi europei respiriamo qui in Sudafrica. La sensazione è quella di essere lontano dal resto del mondo: gli oceani stanno tra noi e gli altri continenti, e migliaia di chilometri di giungle e deserti ci separano dalle terre dove il terrorismo sta facendo stragi.
Soprattutto, qui lo scontro tra fondamentalismi pseudo-religiosi non esiste, perché, per esempio, il cristianesimo è spesso commisto con credenze tribali e quindi non esiste un unico cristianesimo, granitico; l'islam, dal canto suo, è molto minoritario e i fedeli musulmani in questa parte del mondo non hanno mai avuto alcun appiglio storico-morale-culturale per appellarsi alla violenza dogmatica.

Certo, l'Africa stessa ha vissuto guerre e violenze inimmaginabili. Ma spero davvero che le sue qualità migliori, che io posso sperimentare ogni giorno a Durban (compresa la coesistenza pacifica tra etnie totalmente diverse per razze e stili di vita), la facciano diventare il continente del futuro. Sai che smacco, l'umanità salvata dal continente più sfruttato e più sofferente nella storia dell'uomo.

mercoledì 18 novembre 2015

L'Europa in guerra


Sono passati 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, e oggi l’intera Europa torna a sentire il sapore acre della paura, dell’insicurezza, quel senso di essere possibili bersagli in ogni momento di una violenza omicida che non guarda in faccia nessuno. Della guerra in Ucraina ho parlato nel post che ho pubblicato cinque mesi fa, dove pure parlai dei rischi connessi all’immigrazione massiccia, del fenomeno dell’Isis e di un nuovo clima internazionale che non promette nulla di buono.

Quello che non avevo previsto è che la situazione degenerasse così rapidamente. Gli attentati di venerdì 13 (data scelta a caso?) novembre a Parigi, rivendicati dall’Isis, sono di una gravità paragonabile a quelli dell’11 settembre 2001 a New York e Washington. Allora i morti furono tremila, nel crollo delle Torri Gemelle e nello sfascio del Pentagono, stavolta sono circa 130, ma uccisi a sangue freddo uno per volta all’interno di un teatro. E comunque la gravità non cambia. Allora l’organizzazione terroristica da combattere era al-Qaida di Osama bin Laden. Oggi, bin Laden è morto quattro anni fa e di al-Qaida non si sente più parlare, ma il nuovo nemico è l’Isis di Abu Bakr al-Baghdadi, e, per quanto sembri impossibile, i suoi adepti sono molto, ma molto più estremisti e pazzoidi, e quindi più pericolosi, di quelli di al-Qaida.

Non andrà mai sottolineato abbastanza come le nazioni occidentali finora abbiano preso sottogamba il problema, godendo dello stato di guerra in Medio Oriente perché portava profitti all'economia degli armamenti. Mentre ora che c'è stato il "patatrac", l'Occidente sta trionfalmente allestendo una coalizione con la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan e l'Iran degli sciiti (nemici giurati dei sunniti estremisti dell'Isis), il cui obiettivo ovviamente è intervenire ancora più pesantemente dal punto di vista militare, dopo aver fallito (di proposito?) ogni altra azione non militare per evitare la situazione in cui siamo oggi. A cosa è servita la costruzione di basi militari americane in Arabia Saudita nel 1990? A preparare la prima guerra del Golfo, ma l'effetto a lungo termine è stato accrescere i malumori del mondo islamico contro l'imperialismo americano e occidentale. Le guerre dell'amministrazione Bush in Afghanistan e Iraq hanno aggravato esponenzialmente l'odio, e la ciliegina sulla torta sono gli interventi americani ed europei in Libia e in Siria. Ormai il Vicino e Medio Oriente sono uno scacchiere in cui le potenze occidentali e la Russia si giocano i propri interessi egemonici ed economici. Quelle terre però sono patria di uno dei nazionalismi più forti al giorno d'oggi: il nazionalismo islamico. C'è quindi da sorprendersi se tanti musulmani vedono di buon occhio una "punizione" dell'Occidente per ciò che sta combinando a casa loro? Chiaramente, cosa c'entrano gli studenti e la gente normale di Parigi, uccisi a sangue freddo? Ma un contadino o un impiegato iracheno o siriano potrebbe rispondere: cosa c'entravano gli studenti e la gente normale di Tikrit, Baghdad, Mosul, quando furono bombardati dalle bombe europee e americane?

L'Unione Europea, dopo settant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale, e per la prima volta da quando l'UE esiste, si sente in guerra. La Turchia, la Russia, gli Stati Uniti, si uniscono in una nuova inedita alleanza contro l'Isis. Inedita alleanza, perché uno degli alleati più importanti è l'Iran, che fino a poco tempo fa era additato dagli USA come uno Stato che operava contro il diritto internazionale. Un nuovo gruppo G20 si sta profilando come alleanza anti-terrorismo. Un G20 che vede sedere accanto a USA e UE, e ai loro tradizionali alleati o partner economici come Giappone, Canada, Australia, Brasile, Argentina, Turchia, Arabia Saudita (e ad altri Paesi non particolarmente partner, ma potenti sulla scena internazionale, come Cina, India, Russia), anche new entries, Paesi che temono l'avanzata dei terroristi allo stesso modo, come Svizzera e Norvegia in Europa, l'Iran che di fatto oggi è una roccaforte accerchiata da estremismi mediorientali, e la Nigeria il cui nuovo governo ha dichiarato guerra aperta ai terroristi islamici di Boko Haram, che finora hanno ucciso più dell'Isis (soltanto l'altro giorno hanno provocato una nuova strage in Nigeria, con decine di morti e feriti), e da quest'anno si sono ufficialmente alleati con lo stesso Isis. Così, in modo repentino, cambiano oggi le alleanze internazionali.

Cosa ci dobbiamo attendere ora? La nuova "strana alleanza" intensificherà i bombardamenti sui territori controllati dall'Isis in Siria, come stanno già cominciando a fare massicciamente Francia e Russia. Il problema è che, anche se le strutture dell'Isis in Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, venissero totalmente distrutte, in Europa ci sono ormai centinaia di cani sciolti seguaci dell'Isis. Basta un piccolo commando di cinque o sei persone per fare una strage, come si è visto a Parigi. L'Unione Europea dovrà intensificare sempre più i controlli, la sicurezza interna, in un clima simile a quello vissuto negli Stati Uniti dopo l'11 settembre. Sarà una prova decisiva anche per vedere la tenuta dell'UE, per vedere se il progetto di una possibile federazione europea possa funzionare in questo nuovo mondo.

Fino alla seconda guerra mondiale, i Paesi dell'attuale Unione Europea non avevano mai conosciuto periodi di pace più lunghi di mezzo secolo. Oggi il mondo è totalmente diverso, nuovi nemici mai esistiti prima, nuove alleanze e nuovi rapporti di forza inediti nella storia. Speriamo che, sotto l'effetto di cambiamenti epocali, questo lungo periodo di pace non si sia appena interrotto.

giovedì 15 ottobre 2015

Drakensberg

I Monti dei Draghi, li chiamano. C'ero stato l'anno scorso, per una gita veloce di una giornata e mezza, ma non mi avevano impressionato. Per uno cresciuto alle falde delle Alpi, le montagne sono tutt'altra cosa, pensavo. Mi sbagliavo, l'anno scorso ero stato soltanto sulle prime pendici della catena dei Drakensberg, nel Royal Natal National Park, in piena stagione secca, quando le formazioni rocciose si ergevano su un paesaggio bellissimo, ma che mi ricordava più che altro il deserto dell'Arizona.
Quest'anno sono stato tre giorni in un'uscita più avventurosa con altri colleghi, in cui per due notti abbiamo dormito in piccole tendine montate in mezzo al nulla nella ventosa valle Mhlwazini. Sveglia alle 5.30 di mattina per tre giorni di fila, poi zaino in spalla e via, scarpinando in salita, fino al Gray's Pass, a circa 3000 metri di altitudine, al confine col Lesotho.
Montagne brulle, com'è normale a oltre 2000 metri, ma rivestite di verde, un verde sottile, a tratti brillante.
Ci siamo arrampicati fino in cima alla Grande Scarpata (Great Escarpment), cioè i rilievi più alti, che sono tutto ciò che resta dell'antichissimo bordo dell'altopiano sudafricano, innalzatosi a queste altezze 180 milioni di anni fa. Non so se sia questo l'origine del nome Drakensberg, però questi rilievi sono spezzettati a formare tante guglie, che viste da lontano mi sembravano il dorso e la coda di qualche dinosauro, o di un
drago, appunto.
In cima all'Escarpment ho visto un branco di cervi che giocavano tra loro, finché non si sono accorti della nostra presenza e se ne sono scappati. E molti avvoltoi del Capo, enormi, che avevano i loro nidi su pareti di roccia inaccessibili. C'erano anche grossi corvi neri: uno ha approfittato del fatto che avevamo lasciato gli zaini incustoditi per un po', e ha rubato la colazione di Jorge. Cavalli liberi pascolavano poco lontano: Marian, la collega sudafricana (di origini britanniche e irlandesi) mi ha detto che erano i cavalli dei pastori sotho (la popolazione del Lesotho), che dal versante opposto risalivano dal Lesotho per lasciarli qui a pascolare, incuranti dei confini umani degli Stati.
Abbiamo avuto anche la fortuna di vederne uno, di pastore sotho. Era prima dell'alba dell'ultimo giorno, quando già eravamo tornati ad accamparci giù nella valle Mhlwazini, pronti per l'ultima camminata di ritorno. Eravamo già tutti svegli e alle 6 di mattina stavamo facendo colazione presso le nostre tende quando, senza alcun rumore, un giovane di colore avvolto in una coperta, e con un bastone appoggiato dietro al collo, passa sul sentiero, silenzioso. Noi salutiamo e lui ricambia con un semplice cenno, allontanandosi. Marian ci dice che quello era proprio un sotho, che stava tornando verso il Gray's Pass, diretto in Lesotho. Secondo Marian e Alice, l'altra collega sudafricana, ci sono stati casi di furti da parte dei pastori sotho, che varcherebbero il confine sulle vette per scendere nelle vallate montuose sudafricane in cerca di qualcosa da rubare. Spero un giorno di visitare il Lesotho, me ne hanno parlato come di un Paese bellissimo, dove la gente è molto povera ma estremamente buona e accogliente. A parte i pastori di confine, evidentemente...

Ora che sono ritornato a Durban, e specialmente nel quartiere bianco dove vivo, quelle valli africane, selvagge e misteriose mi sembrano quasi un altro mondo, eppure sono appena a tre ore di macchina. Direi, un altro punto a favore del fascino del Sudafrica.

martedì 23 giugno 2015

Nuovo ordine mondiale, terza guerra mondiale e altri dettagli

Guerra in Ucraina, 2014

Se fino a pochi anni fa qualcuno avesse parlato di terza guerra mondiale, gli avrebbero dato del catastrofista paranoide. Oggi invece questo termine si sente sempre più spesso sui notiziari, agitato come prospettiva imminente. Il papa stesso ha accennato per primo a questo scenario, l'anno scorso: "Siamo entrati in una terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli".
Le due precedenti guerre mondiali hanno delle precise date di inizio e fine delle ostilità, mentre oggi non si dichiara più guerra, si combatte e basta, militarmente, economicamente o a base di dichiarazioni a mezzo stampa che generano conseguenze anche di enorme portata.

La verità è che negli ultimi anni il cosiddetto "ordine mondiale" ha visto un sempre più veloce deteriorarsi della situazione. Tutto si può far risalire all'11 settembre 2001 e alle conseguenti guerre americane in Afghanistan e Iraq. L'abbattimento manu militari del regime di Saddam Hussein in Iraq ha aperto nell'intera regione mediorientale un vaso di pandora, con bande estremiste di diverse provenienze che, caduto il potere autoritario di Saddam, hanno cominciato ad armarsi, gettando nel caos l'intero Iraq. In quell'ambiente prima ci ha sguazzato al-Qaida, poi ci è nato un gruppo terrorista ancora più estremista, che si è autonominato ISIS (Islamic State of Iraq and Syria). L'Isis proclama di voler instaurare uno Stato integralista islamico e si è reso volontariamente protagonista di azioni di una violenza atroce sulle popolazioni civili, sui cristiani e sulle donne, violenze in certi casi documentate dallo stesso Isis attraverso uno sviluppato sistema di propaganda.
Miliziani dell'Isis si immortalano mentre
"giustiziano" dei civili inermi
Il presidente americano Obama, al potere dal 2009, assunse all'inizio una politica estera opposta a quella del suo predecessore Bush, decidendo di disimpegnarsi dallo scenario globale per dedicarsi maggiormente alla situazione interna americana.
Ma ormai era troppo tardi, gli Stati Uniti avevano stravolto la situazione in Medio Oriente e i governi-fantoccio in Iraq e in Afghanistan non avevano la forza per resistere da soli all'anarchia dilagante.
Al comando dell'Isis ci sono ex generali (musulmani) di Saddam Hussein ed ex prigionieri di guerra inspiegabilmente liberati a suo tempo dai campi di prigionia, com'è il caso del leader Abu Bakr al-Baghdadi. Dopo essersi organizzato militarmente, dall'anno scorso l'Isis ha cominciato a conquistare il nord dell'Iraq e poi il nord-est della Siria. Anche in Libia, dopo l'abbattimento del regime di Mu'ammar Gheddafi, il Paese è precipitato nell'anarchia nonostante l'Occidente sperasse di insediarvi un governo-fantoccio amico. Così anche lì l'Isis ha potuto infiltrarsi facilmente e prendere il controllo di buona parte della Libia. Intanto, il presidente della Siria, Bashar al-Assad, sembrava sul punto di essere destituito anche con la forza dall'alleanza militare della NATO, con la scusa che Assad aveva represso nel sangue le rivolte della cosiddetta "primavera araba" (chiaramente l'obiettivo degli USA e alleati era di instaurare un altro governo-fantoccio), ma l'ascesa della violenza dell'Isis anche in Siria ha spinto la Nato a rivedere i piani e ha concesso ad Assad di rimanere al potere perché fa da baluardo contro l'Isis (funzione che pure avevano i regimi di Saddam Hussein in Iraq e di Gheddafi in Libia prima di essere abbattuti dagli eserciti americani e alleati).

L'impressione di molti analisti è che gli Usa e la Nato stiano giocando una politica di gestione degli equilibri in Medio Oriente; come se a loro stesse bene che l'Isis giochi la sua parte (purché non superi certi limiti) perché in questo modo ne beneficia l'industria delle armi.

In questo scenario, è chiaro che potenze totalmente libere dal controllo occidentale, come Russia e Cina, non stanno prendendo bene questi sviluppi.
L'Unione Europea invece, legata a doppio filo agli Usa e alla Nato fin dalla fine della seconda guerra mondiale, non ha una voce unica e una vera iniziativa politica autonoma. Eppure dovrebbe, dato che la sua posizione geografica la sta ponendo sempre di più in una situazione difficile. I suoi confini orientali e meridionali sono a immediato ridosso di quelle regioni calde: Cipro (il confine sudorientale europeo) è a poche miglia marine dalla Siria. Malta e le coste meridionali italiane e greche sono a qualche decina di miglia dalla Libia sempre più preda dell'Isis. Già si cominciano a leggere dichiarazioni dell'Isis libico secondo cui disporrebbe di missili in grado di raggiungere l'Italia.
Barcone di immigrati
Inoltre intere popolazioni stanno fuggendo in massa dalla violenza di quelle regioni, e guarda caso si stanno dirigendo in Europa. Migliaia di immigrati si imbarcano dalla Libia e sbarcano sulle coste maltesi, italiane e greche, o spesso i barconi su cui viaggiano (gestiti da affaristi senza scrupoli per la vita umana) affondano provocando decine o centinaia di vittime in mare. Altre numerose torme di poveracci attraversano migliaia di chilometri a piedi, passano dalla Turchia e infine riescono a entrare nell'Unione Europea attraverso la Grecia o la Bulgaria, evidentemente dove i controlli di confine sono scarsi.
L'Unione Europea sta soccombendo sotto la mancanza di una visione su come gestire i sempre maggiori flussi di immigrati clandestini, che manderebbero in tilt la sicurezza all'interno dei suoi 28 Stati membri, anche considerando la già difficile situazione dal punto di vista della scarsità di occupazione lavorativa per gli stessi cittadini europei.
In questo scenario, l'Ungheria sta progettando di costruire un muro lungo tutto il confine con la Serbia, per fermare i flussi clandestini diventati incontrollabili. La Spagna lo ha già fatto a Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole che confinano col Marocco (e l'Isis ha recentemente minacciato la Spagna di infiltrarsi proprio da lì). La Francia ha fermato recentemente al confine con l'Italia un centinaio di immigrati, adducendo il fatto che l'Italia non li ha registrati, quindi non possono passare attraverso i confini interni dell'UE, secondo gli Accordi di Schengen e di Dublino. Ma l'Italia e la Grecia da anni inviano richieste di aiuto all'Unione Europea perché è impossibile bloccare via mare il flusso sempre crescente, e di conseguenza migliaia di immigrati ogni anno sfuggono alla
Immigrati in attesa di essere mandati ai
centri di accoglienza
registrazione e rimangono come clandestini. La Gran Bretagna sta approvando leggi che taglieranno sussidi, negheranno permessi e in sostanza abbasseranno la sbarra per gli ingressi nel Regno Unito. Anche la Svizzera, che non fa parte dell'UE ma aderisce agli Accordi di Schengen sulla libera circolazione, solo nei primi cinque mesi di quest'anno ha respinto al confine con l'Italia 1700 immigrati: perfino lei, la "fortezza" Svizzera, rimasta sempre un'oasi politicamente estranea a tutto ciò che la circonda, in relativo auto-isolamento, questa volta non può fare finta di niente di fronte alla pressione di migliaia di immigrati alle sue frontiere, una parte dei quali comunque riuscirà a regolarizzarsi e a entrare, cambiando i sempre più precari equilibri del piccolo Stato alpino.
Insomma, quelli che secondo la visione ottimista di alcuni padri fondatori sarebbero dovuti diventare gli Stati Uniti d'Europa, sono diventati un gruppo di Paesi sempre più spaventati e propensi a chiudere le frontiere, uno sforzo inutile perché ormai impossibile.
Nel frattempo, l'Alto Commissariato ONU per i rifugiati (UNHCR) ha annunciato che dall'inizio del 2015 sono già ben più di 100.000 le persone approdate in Unione Europea. In Italia sono presenti 80.000 immigrati in attesa di essere rimandati indietro o regolarizzati.

Tutta presa da questa emergenza, l'Unione Europea sta ignorando una crisi politica internazionale ai propri confini orientali, crisi le cui implicazioni e conseguenze potrebbero portare, secondo alcuni, anche a una terza guerra mondiale, nel peggiore degli scenari. Si tratta della guerra in Ucraina, Paese confinante per centinaia di chilometri con l'Unione Europea. L'Ucraina da anni si dibatte drammaticamente tra la scelta di avvicinarsi all'Unione Europea e i legami economici e in parte politici con la confinante Russia, che un tempo inglobava la nazione ucraina nell'Unione Sovietica.
Dopo anni di turbolenze politiche, la situazione è precipitata dal 2013. In quell'anno UE e Ucraina stavano discutendo se ratificare un accordo di associazione commerciale e la Russia reagì bloccando tutte le merci provenienti dall'Ucraina. Il presidente ucraino Yanukovich annullò l'accordo con l'UE, e quando si seppe che il presidente russo Putin avrebbe concesso un prestito all'Ucraina per indurla a questo, scoppiarono proteste spontanee in piazza a Kiev (capitale ucraina). Yanukovich non fece retromarcia, anzi il governo varò leggi per impedire manifestazioni. Ma la piazza non si placò, le proteste dilagarono in tutto il Paese, represse duramente in un clima di violenza crescente. Yanukovich era sostenuto dalla Russia e criticato fortemente da Onu, Usa e Ue.
Dopo tre mesi, tra il 18 e 20 febbraio 2014 le proteste di piazza diventarono violentissime (c'è chi parla di elementi neonazisti o infiltrati dall'Occidente per far deliberatamente precipitare la situazione) e vennero combattute sanguinosamente dalla polizia. Al termine di quei tre giorni si contavano oltre un centinaio di morti. I morti e dispersi durante tutta la rivoluzione sarebbero stati oltre 700. Il 21 febbraio Yanukovich dichiarò due giorni di lutto nazionale, ma l'emergenza non era finita. La maggior parte dei ministri si rese irreperibile, il presidente del Parlamento ucraino si dimise adducendo come scusa una malattia. Il Parlamento dichiarò decaduto il presidente, al di fuori dell'iter costituzionale, e Yanukovich fuggì precipitosamente in Russia per sfuggire alla cattura. In pochi giorni il Parlamento dimise tutti i ministri del governo Yanukovich e il capo della sicurezza nazionale, nonché alcuni giudici della Corte Costituzionale, riabilitò i prigionieri politici, e denunciò Yanukovich e altri alti funzionari alla Corte Penale Internazionale per crimini contro l'umanità. Il Parlamento discusse anche sull'abolire la legge che attribuiva al russo, rumeno e ungherese valore di lingue ufficiali regionali. La Russia, forse non del tutto a torto, accusò che era in atto in sostanza un colpo di Stato. Era solo l'inizio di una tragedia ancora peggiore.
Nelle regioni ucraine a maggioranza etnica russa, cioè le regioni orientali (al confine con la Russia) e la Crimea (all'estremo sud, divisa dalla Russia solo da un istmo di mare di pochissimi chilometri), la popolazione percepì effettivamente che a Kiev era avvenuto un colpo di Stato. In particolare la popolazione russa della Crimea accolse favorevolmente la mobilitazione delle truppe russe già stanziate in Crimea (secondo accordi ucraino-russi postsovietici), mobilitazione ordinata dal presidente Putin ufficialmente per difendere la popolazione russa di Crimea dalle possibili violenze in seguito ai recenti sviluppi. Entro il 2 marzo le truppe russe avevano il controllo della Crimea. La Crimea, che aveva status di repubblica autonoma all'interno dello Stato ucraino, proclamò un referendum sulla propria indipendenza. Il 16 marzo si svolse il referendum, contro l'opinione delle potenze internazionali, e la Crimea, unilateralmente, si proclamò indipendente. Il 15 maggio si svolse poi un referendum sull'annessione della Crimea alla Russia (storicamente la Crimea era una regione della Russia), in cui stravinsero i si a favore del "ricongiungimento della Crimea con la Russia come soggetto federale della Federazione Russa". Ma la comunità internazionale, in particolare Usa, Ue e OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) non hanno riconosciuto la validità di entrambi i referendum, e non la riconoscono tuttora.
Nel frattempo in aprile anche le regioni orientali di Lugansk e Donetsk videro il diffondersi di manifestazioni per l'indipendenza. Nel corso del mese di aprile gli indipendentisti presero il controllo di alcuni palazzi amministrativi in diverse città: il 7 aprile Donetsk si proclamò con un auto-referendum Repubblica Popolare indipendente, il 27 aprile fu il turno dell'autoproclamazione della Repubblica Popolare di Lugansk. Il 24 maggio 2014 gli indipendentisti sottoposero a referendum la federazione delle due entità, e proclamarono la nascita dello Stato federale della Nuova Russia, ovviamente non riconosciuto dalla comunità internazionale. Donetsk tra l'altro, con un milione e mezzo di abitanti, è capitale della regione economicamente più sviluppata dell'Ucraina. Com'è facile prevedere, ciò fu il preludio a una vera e propria guerra tra il governo centrale ucraino (filoeuropeo e filoccidentale) e gli indipendentisti dell'est filorussi.
Il 17 luglio un aereo di linea proveniente da Amsterdam e diretto a Kuala Lumpur precipitò al confine tra Ucraina e Russia, in un'area controllata dai ribelli filorussi. Tutti i viaggiatori, 298, morirono. In poche si diffuse la voce che l'aereo era stato abbattuto, e diversi testimoni affermarono di aver visto un altro aereo che affiancava l'aereo di linea. Si scatenarono le accuse reciproche: la Russia sostenne che il velivolo che, secondo testimoni, avrebbe abbattuto l'aereo, era ucraino. L'Ucraina, supportata dalla Nato, sostenne che l'aereo sarebbe stato abbattuto da una unità armata russa o dei ribelli filorussi. Si temette anche un vero e proprio ritorno alla guerra fredda, dal momento che 240 tra i 298 passeggeri morti nell'aereo erano occidentali (210 europei, 27 australiani, due statunitensi e un neozelandese), mentre non c'era alcun cittadino russo (gli altri erano 43 malesi, 12 indonesiani e tre filippini). Un'indagine penale internazionale condotta dalla Procura Generale olandese (quasi due terzi delle persone a bordo dell'aereo erano olandesi) è tuttora in corso.
Questa guerra è un crocevia di interessi. Gli Stati Uniti stanno spingendo per espandere la Nato, che oggi già include Paesi ex sovietici come le repubbliche baltiche e i Paesi dell'Europa dell'est che un tempo aderivano al Patto di Varsavia con l'Unione Sovietica (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria). Tutti questi Paesi fanno oggi anche parte integrante dell'Unione Europea, e quindi sono passati definitivamente sotto l'orbita occidentale. La stessa Ucraina era in trattative per entrare nella Nato prima dello scoppio della crisi e, in questo scenario, quella prospettiva è davvero una patata bollente.
Mezzi pesanti della Nato in esercitazione in Repubblica Ceca,
nel cuore dell'Europa
Questo fatto di per sé, fino a pochi anni fa, non avrebbe costituito motivo di attrito con la Russia, perché essa stessa sebrava aver avviato un periodo di relazioni distese e collaborative con l'Occidente. Ma le guerre americane in Medio Oriente, come ho detto, hanno cambiato lo scenario: tutta quella regione ormai è totalmente instabile e la Russia non si può più permettere di rimanere passiva quando la Nato e gli Usa stanno tirando i fili della politica in quei Paesi. Ora, con la crisi ucraina, la Nato ne sta approfittando per intensificare la sua presenza in tutta l'Europa dell'est.
A causa dell'intervento dell'esercito russo ai confini orientali ucraini, per dare supporto agli indipendentisti ucraini contro il governo centrale in quella che è diventata una guerra di logoramento (ma silenziosamente le vittime continuano a salire, ormai sono dell'ordine di molte migliaia), i Paesi del G8 hanno sospeso la Russia dal partecipare alle loro periodiche riunioni, e hanno adottato sanzioni economiche contro la Russia.

In questo clima, la Nato sta intensificando le esercitazioni militari nei Paesi dell'Europa dell'est e sul Baltico (l'ultima, in Polonia, ha visto la partecipazione del segretario della Nato e dei ministri della Difesa di Germania, Polonia, Norvegia e Olanda).
Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Ashton Carter, in visita in Europa ha reso noto che gli Usa, per la prima volta nella storia, dispiegheranno armamenti pesanti (carri armati e artiglieria da combattimento) nei Paesi orientali dell'Unione Europea: Bulgaria, Romania, Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, tutti ex membri del Patto di Varsavia o della stessa Unione Sovietica, e gli ultimi quattro in particolare confinanti direttamente con la Russia. Non più un dispiegamento militare soltanto all'interno della Nato quindi, ma anche in modo autonomo da parte dello stesso esercito degli Stati Uniti.
Esercitazioni militari russe ai confini dell'Unione Europea
(confini coi Paesi baltici)
La Russia risponde alla pari. Accusa gli Usa di provocare fobie antirusse tra i Paesi europei, così da avere un alibi per rafforzare la propria presenza militare nel Vecchio Continente. E già da mesi l'aviazione e la marina russe svolgono esercitazioni nell'area del Baltico, e in qualche occasione hanno sconfinato addirittura in territorio marino e aereo della Svezia. Inoltre Putin ha recentemente dichiarato che in risposta all'atteggiamento aggressivo della Nato, la Russia quest'anno aggiungerà 40 o più nuovi missili balistici al suo arsenale nucleare.


E la Cina (oggi terza potenza mondiale dopo Stati Uniti e Unione Europea)? Se ne sta tranquilla, ma i suoi affari economici con la Russia stanno aumentando esponenzialmente anno dopo anno. Si va quindi verso un'alleanza di fatto tra i due giganti asiatici. In questo scenario, è davvero saggio da parte dell'Occidente (Usa in primis e Ue attaccata dietro come un cagnolino) andare allo scontro? Per cosa poi?
Gli altri Paesi emergenti, in particolare in Asia e in Africa, stanno allentando sempre di più i legami economici con l'Occidente, rivolgendosi alla Cina che sta espandendo i suoi interessi come tentacoli nei Paesi di futuro sviluppo.

A questo punto, anche se non scoppiasse una guerra mondiale, è probabile che se l'Occidente non decide di cambiare rotta si ritroverà in declino prima della fine del secolo, quando la Cina sarà la vera superpotenza mondiale, con potere economico e influenza politica in mezzo mondo, e magari alleata con la Russia in un'ottica anti-occidentale.

venerdì 1 maggio 2015

Zululand

A couple of days ago I went to uShaka, Durban's marine park. Turists, surfers, families and children visiting the aquarium, a show of trained seals for the entertainment of the visitors. A beer festival on the beachfront. It was an exciting atmosphere for the Freedom Day, the most important South African public holiday, that celebrates the anniversary of the first free elections post-apartheid, in 1994.
It was a cosmopolitan ambient, not really African.
Then I went working in the deep province of KwaZulu-Natal and I saw the other side of the coin: the Zulu common people's villages, quite far from the city.

Ndwedwe is a little village just 60 km north of Durban, laid on the beautiful Valley of a Thousands Hills. Here the luxury of the city is really far away. We went to play in Ndwedwe in order to
accompany choral groups of Zulu students living in the surroundings, taking part in the South African Schools Choral Eisteddfod, that is a festival of youth choirs taking place every year in Durban.
In that village I have seen faces marked by that poise and wisdom belonging to people used to trust only their land, which gives them food and job, well far from the postures of the city people. I watched at them while walking around, and they gave me an impression of down-to-earth and level headed people, friendly but not deceitful or smarmy, and I liked them.
The boys and girls in the choirs, dressing different uniforms depending on the school whom they belonged, looked unpretentious but well-aware and determined, typical features of small-town inhabitants.

This, I thought, is Zululand. But then, I recalled that the symbolic and moral leader of Zulu people is a king who in the last weeks has wished for the foreign African immigrants to go back to their countries, because in his opinion they would steal the job from the Zulus. His words, quoted by the newspapers, instigated xenophobic violence in Durban, violence degenerated in destroyed shops and casualties in the riots.
The fact is that Goodwill Zwelithini kaBhekuzulu, king of the Zulus since half a century ago, holds a role recognized by the South African constitution, as constitutional monarch of the Zulu kingdom within KwaZulu-Natal, as well as head of other Zulu institutions.
So, his declarations must not be taken lightly. At any rate, they have been taken even too seriously by those unemployed and exasperated ones that have attacked the shops run by African immigrants, in one of the poorest areas in the city.
The scandal is that the Zulu king, with six wives and 28 children, wastes money crazily and in a way that is totally disrespectful to his own people, most of them living in poverty. In order to reply to criticism and condemn xenophobia, king Goodwill Zwelithini held a political meeting at the monumental Moses Mabhida Stadium, last week.

I wonder what the quiet working people of Ndwedwe will think about this person.
Anyways, every time I discover new pieces of South African life, a world that never stops to surprise me.